Daniela GentileII_MMXVIIILeggi e Norme

FOCUS SU INTERFERENZE E COMMISTIONI TRA PROCEDIMENTO PENALE E DISCIPLINARE NEL PUBBLICO IMPIEGO. IL CASO DELLA CONTESTAZIONE DEL DELITTO DI ABUSO D’UFFICIO (ART 323 C.P.)

di Daniela Gentile

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Decreto Legislativo 8 aprile 2013, n. 39
Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (la c.d. legge anticorruzione) in materia di dell’inconferibilità e dell’incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati di diritto pubblico.

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Nell’attuale contesto socio-politico uno dei temi cruciali riguarda il miglioramento delle performance della Pubblica Amministrazione, dove il ruolo da protagonista è affidato al mai sopito dibattito circa la riforma dei reati del II titolo del codice penale.
Da una parte, infatti, la esposizione massiccia dell’agente pubblico al rischio corruzione e la conseguente responsabilità (penale, contabile e disciplinare) che ne deriva genera uno dei maggiori effetti distorsivi del corretto operato della P.A., accrescendo il senso di sfiducia e proiettando un’immagine inefficiente e incapace di farsi portatrice delle istanze dei cittadini; dall’altra il (fondato) timore della sottoposizione ad un procedimento penale, così come gli effetti “a cascata” che qui si analizzeranno, danno vita, fisiologicamente, a quella situazione riassumibile nella “fuga dal potere di firma” da parte del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio costretti ad orientarsi nel mare magnum di norme con il rischio di incorrere nella la «violazione di norme di legge o di regolamento» nel caso, esemplificativo, della norma relativa all’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p.
Da questo angolo prospettico un primo punto di osservazione può riguardare proprio il delitto di cui all’art. 323 c.p., le cui basi poggiano sulla violazione delle fonti regolanti l’azione amministrativa. L’analisi intende concentrarsi sulle interferenze e commistioni che la contestazione del delitto crea, consumandosi fisiologicamente nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego.
Il tema della responsabilità disciplinare del pubblico impiegato non è affatto recente, anzi vede un’intensa attività di produzione legislativa: nel 2009 con il D. Lgs. n.150/2009, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, più recentemente con la Legge 124/2015 (Legge Madia).
In seguito, e per far fronte alle pressanti istanze mass mediatiche che segnalavano la necessità di intervenire sul fenomeno degli assenteisti, il governo ha adottato il D.Lgs. 116/2016. Manifesto del potenziamento dei livelli di efficienza dei pubblici uffici e di contrasto ai fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo, il D.Lgs. 150/2009 riserva un intero capo alla disciplina delle sanzioni e delle responsabilità dei lavoratori pubblici.

Il tema del rapporto tra la responsabilità penale del pubblico dipendente e quella disciplinare è affrontato all’art. 55 ter del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, c.d. testo unico del pubblico impiego, che prevede la prosecuzione e conclusione del primo anche  in caso in cui il comportamento del dipendente integri una fattispecie penale.
Tuttavia la Legge 124/2015 ha previsto la possibilità di sospensione del procedimento disciplinare  nel caso di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e per il quale sono previste  sanzioni superiori alla sospensione dal servizio. Il procedimento disciplinare sospeso può essere riattivato «qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi sufficienti per concludere il procedimento, anche sulla base di un provvedimento giurisdizionale non definitivo. Resta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente».
Quali conseguenze comporta, dunque, una sentenza penale in materia di responsabilità disciplinare? Vediamole singolarmente: con riferimento alla decisione assolutoria (che può attenere il fatto ovvero la sua qualificazione) l’art. 653 c.p.p., nel testo modificato dalla legge 27/3/2001 n. 97, riconosce alla sentenza penale irrevocabile efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare quanto all’accertamento che il fatto non sussiste, non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso.

Una prima constatazione è d’obbligo: di autentica efficacia preclusiva si può parlare solo con riferimento alle sentenze sul fatto, ovvero quelle emesse perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso; al contrario sono prive di effetti vincolanti nella procedura disciplinare le sentenze assolutorie emanate con la formula “perché il fatto non costituisce reato” poichè il medesimo fatto, il cui accadimento è stato comunque accertato dal punto di vista storico, potrebbe comunque integrare violazione del codice disciplinare, con conseguente obbligo di attivare o di riassumere la relativa procedura sanzionatoria.
Nel caso, invece, in cui si arrivi ad una sentenza di condanna, che assume evidentemente efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare limitatamente alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità e alla commissione da parte dell’imputato, giova osservare come la decisione non potrà mai generare degli automatismi espulsivi, dal momento che, come ribadito dalla stessa Corte costituzionale,   nessuna sanzione disciplinare può essere irrogata al di fuori di un procedimento che costituisce cumulativamente il luogo ed il modo dell’esercizio dei poteri disciplinari della pubblica amministrazione.

 

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