Alluvioni: rinaturalizzare il territorio in linea col dettato costituzionale

di Cristiano Manni

I recenti eventi alluvionali in Emilia Romagna riaprono il dibattito sulla gestione del rischio idrogeologico. Nonostante da tempo la letteratura tecnica e scientifica abbia messo in risalto l’importanza della naturalità e della biodiversità dei sistemi idrogeologici nella mitigazione del rischio, ancor oggi si continuano ad usare espressioni improprie come “messa in sicurezza del territorio”, “pulizia dei fiumi”, “taglio di piante ripariali”. In realtà l’azione degli enti pubblici dovrebbe essere quella, in linea col dettato costituzionale, di una progressiva rinaturalizzazione.

 


Quando si parla di rischio idrogeologico, è bene avere un quadro sintetico ed essenziale dei fenomeni fisici e biologici che lo determinano, e del quadro complessivo delle norme, che rappresentano la reale volontà del sistema –Paese sul territorio, sull’economia e sulla popolazione.

Iniziamo da quello che dicono le leggi. In Italia la gestione del rischio alluvioni è regolata dal diritto europeo, ed in particolare dalla Direttiva 2007/60/CE “Alluvioni”, recepita  dal Decreto legislativo n. 49 del 2010.

Nella Direttiva Alluvioni si richiama un’altra normativa europea, la Direttiva 2000/60/CE “Acque”, inerente la loro qualità e gli aspetti ambientali ad essa commessi, e si sottolinea la necessità di una sinergia e di un coordinamento tra le due direttive, al fine di non sacrificare la qualità delle acque per la mitigazione del rischio idraulico.

La Direttiva Alluvioni fa un elenco dei beni giuridici tutelati dalla norma, in un ordine di priorità: in primo luogo la salute umana, quindi l’integrità dell’ambiente, la conservazione dei beni culturali e, infine, le attività economiche e le infrastrutture. C’è da osservare, tuttavia, che il Dlgs 49/2010, nel recepirla, adotta un elenco non esattamente corrispondente: “la salute umana, il territorio, i beni, l’ambiente, il patrimonio culturale e le attività economiche e sociali”.

Un altro elemento importante, da tenere in considerazione, introdotto dalla Direttiva “Alluvioni”, è la specifica distinzione tra “pericolo” e “rischio”. Come in altri contesti di protezione civile, questa differenziazione è molto importante, perché aree a potenziale pericolo, ma a rischio basso, in quanto prive di insediamenti abitativi o produttivi, possono divenirlo a seguito di modifiche urbanistiche.

Il pericolo di alluvione, infatti, è un indice di natura statistica, indicato dal “tempo di ritorno”, cioè l’intervallo di tempo in cui un certo evento, di una certa intensità, ha probabilità di ripresentarsi.

Bisogna evidenziare che il nostro Paese, prima delle direttive Alluvioni e Acque, già aveva una legislazione nazionale: la legge 183 del 1989, ora abrogata, poiché assorbita ed integrata alla Direttiva Acque nella Parte Terza del Testo Unico Ambientale (Decreto Legislativo 152/2006).

L’analogia tra la legislazione di ieri e quella di oggi può apparire evidente, almeno per ciò che concerne i compiti delle Autorità di Bacino (in origine statali, poi miste stato-regioni) che devono affrontare il problema del rischio idrogeologico a scala di bacino imbrifero. La differenza sostanziale, meno apparente, è un cambio di approccio al problema: dal “Piano di Assetto idrogeologico” (PAI), si passa al “Piano di Gestione del Rischio Alluvioni”. Se infatti in passato si aveva la pretesa di “assestare” il bacino idrografico per “mettere in sicurezza il territorio” (espressione tecnicamente molto infelice, ma ancor oggi molto abusata), oggi è accettato che il rischio idrogeologico ne è insito e congenito, per cui è necessario imparare a conviverci, operando un ragionevole bilanciamento tra i beni giuridici da tutelare che, come abbiamo visto, sono leggermente divergenti nella formulazione originale della Direttiva Alluvioni e il successivo recepimento nella normativa nazionale. È infatti evidente come i beni giuridici tutelati siano tra loro “rivali” (appunto da rivus), e come la tutela dell’uno possa contrastare, come spesso accade, con la tutela dell’altro, come ad esempio, quella della salute o dell’ambiente con quella dei beni e delle attività produttive. Oltretutto l’introduzione nell’elenco della parola “territorio”, di significato assai vasto e di competenza diffusa e frammentata tra i vari enti territoriali, interrompe la chiarezza tassativa dell’originaria formulazione della Direttiva Alluvioni.

Tentando di fare un’analisi, peraltro complessa, dell’attuale situazione normativa, appare evidente come esista un delicato sistema, spesso contraddittorio, ed una forte dialettica tra le previsioni, le azioni e le decisioni generali a grande scala, e le istanze delle comunità locali e degli enti territoriali, più focalizzate invece ai problemi contingenti, come le politiche insediative e produttive e la fornitura di servizi pubblici essenziali, non sempre in armonia con più ampie esigenze di sicurezza e tutela della salute e dell’ambiente.

Ad esempio, la materia della protezione del suolo, intesa come azione di tutela di un bene di primaria importanza da cui dipende la produttività agricola e il sedime degli insediamenti abitativi e produttivi, ma che è suscettibile di erosione, degrado qualitativo, inquinamento e impermeabilizzazione, è purtroppo spezzettata nella legislazione regionale, così come la normativa forestale, ad essa strettamente connessa.

La delicata normativa urbanistica ed edilizia, anch’essa di primaria importanza nella definizione del problema, è frammentata tra le competenze regionali e quelle comunali.

Vi è poi una normativa di estrema importanza, ma troppo spesso trascurata nell’analisi dei processi che determinano potenziale dissesto: quella in materia di consorzi di bonifica.

I consorzi di bonifica sono enti abbastanza atipici per il nostro sistema amministrativo: hanno sia carattere privato, che pubblico. La normativa che li ha istituiti e regolati è il Regio Decreto 215 del 1933. Prima di allora, i consorzi erano regolati tipicamente, coma accade ancor oggi, dal diritto privato, poiché lo Stato riconosceva natura pubblica alle opere idrauliche sui fiumi (Regio Decreto 524 del 1904), e natura privata alle opere di irrigazione. Essi sono i soggetti che eseguono la grande maggioranza degli interventi e delle opere sul reticolo idrologico nazionale, sia sulla base di progetti predisposti dalle regioni, ed all’uopo finanziati, sia per opere di irrigazione e difesa delle colture e dei beni fondiari dei privati consorziati, finanziati proporzionalmente con i contributi dei singoli proprietari afferenti al comprensori di bonifica di competenza che, in alcune zone, è esteso all’intero territorio regionale.

Poiché la materia ambientale, di competenza statale, cui afferisce sicuramente anche le gestione del rischio alluvioni, è di più recente acquisizione al nostro ordinamento, è accaduto che foreste ed agricoltura, l’abbiano “trascinata” alle competenze regionali con il DPR 616 del 1977. Con l’agricoltura sono transitati alle regioni anche i consorzi, la cui competenza originaria si è nel frattempo estesa ben oltre  l’interesse alla manutenzione dei canali artificiali a servizio della bonifica e dell’irrigazione, allargandosi invece agli alvei naturali dei corsi d’acqua suscettibili di esondare nei fondi privati. Si è trasferito pertanto ai fiumi, del tutto infelicemente, il concetto di “manutenzione”. Con esso la semantica originaria, che ovunque è riferita ad opere realizzate dalla mano umana, solo in questo ambito ha finito per comprendere anche e soprattutto gli elementi naturali. Quando si interviene sui sistemi fluviali naturali, piuttosto che di “manutenzione”, sarebbe opportuno parlare di “manomissione”. Non siamo infatti di fronte al ripristino di funzioni di progetto, ma alla modifica di funzioni naturali. Usando il termine “manomissione”, sarebbe probabilmente più chiara l’accezione negativa che molti interventi, previsti dai piani annuali di bonifica, finiscono per avere sui fiumi, e che spesso contrastano con altre leggi di tutela, che riconoscono agli stessi valore paesaggistico (art. 142 del Decreto legislativo 42 del 2004) e di “corridoio ecologico” (art. 3 DPR 357 del 1997, di recepimento della Direttiva Habitat).

C’è inoltre da rilevare il non secondario problema che, in base alle varie normative regionali, i piani di “manutenzione” del reticolo idraulico naturale vengono spesso redatti dagli uffici tecnici dei consorzi, ed approvati dai consigli di amministrazione, i quali sono eletti su base censuaria, creando un sistema in cui un ristretto numero di cittadini, per lo più grandi proprietari terrieri, esprimono la maggioranza assoluta, approvando interventi che in teoria vorrebbero essere, contemporaneamente, di pubblico interesse e finalizzati a ridurre il rischio idrogeologico, e di interesse privato, finalizzati a ridurre il rischio di danni ai fondi agricoli.

Passiamo ora ad esaminare gli aspetti scientifici del problema. L’evoluzione delle conoscenze è proseguita, nel corso degli anni, verso una constatazione del rapporto di causa-effetto tra integrità ecologica dei sistemi fluviali, e condizioni di maggior sicurezza. Queste osservazioni sono perfettamente in linea col paradigma scientifico della “complessità”, che nessuno mette in discussione nelle scienze biologiche. La “resilienza” (parola un po’ abusata) e soprattutto la “resistenza”,  sono  i concetti in base ai quali è possibile prevedere se un sistema ecologico complesso, quale un fiume o l’intero suo bacino idrografico, formato da tutti i suoi affluenti, possa resistere alle “perturbazioni” (influenze esterne in grado di alterarne l’equilibrio strutturale), oppure ripristinare elasticamente il suo stato originario senza collassare in sistemi più semplici ed instabili. Le perturbazioni ad un sistema idrogeologico sono molteplici: dissodamenti, disboscamenti, tagli boschivi, inalveamenti, arginature, trasformazioni dell’uso del suolo nei territori nati dalla deposizione di sedimenti lasciati dalle esondazioni dei fiumi nel corso di centinaia di migliaia, a volte milioni di anni. Le perturbazioni possono consistere anche nella modifica della qualità delle acque, ad esempio a causa dell’inquinamento, o l’innalzamento della loro temperatura, a seguito del taglio degli alberi sulle rive che mantenevano l’ombra sul fiume o sul torrente.

Gli aspetti biologici sono molto sottovalutati rispetto a quelli meramente fisici idraulici, ma possono giocare un ruolo determinate nella perdita di equilibrio del sistema, e determinare scenari di altissimo rischio. In ecologia esiste il principio della “ridondanza”: un sistema complesso si mantiene infatti stabile quanti più meccanismi assolvono alla stessa funzione, di modo che se ne salta uno, ve ne sono altri che rapidamente sopperiscono. Il principio è molto facile da capire se si pensa ad un aereo, dove un guasto ad un sistema deve essere subito neutralizzato da un sistema di sicurezza, perché l’aereo evidentemente non può fermarsi per ripararlo. Il principio della ridondanza è spiegato anche dalla così detta “teoria del rivetto”, cioè della presenza di specie chiave che, se vengono a mancare come un rivetto sull’ala di un aereo,  possono innescare una serie di reazioni a catena che determinano il collasso.

È il caso, per l’argomento che trattiamo, degli “anomali fossori”, cioè le ormai celebri nutrie ed istrici che scavano gallerie negli argini, provocandone il dissesto. Tali animali sono quasi sempre alloctoni, cioè estranei all’ecosistema naturale, la cui espansione non è causa, bensì conseguenza dell’alterazione antropica di ambienti semplificati e molto lontani dal loro stato di naturalità, che creano condizioni biologicamente favorevoli alla loro proliferazione, né è ormai ragionevolmente proponibile la loro estirpazione senza il rischio di incorrere in ulteriori e più gravi scenari di rischio dei sistemi fluviali.

Facciamo adesso un passo verso le scienze applicate. L’idrologia si occupa dello studio del ciclo dell’acqua sulle terre emerse, ed è utile acquisirne alcuni concetti base per comprendere meglio il problema del deflusso e dei conseguenti fenomeni alluvionali. L’idrologia attinge conoscenze dall’ecologia, dalla geologia, dall’idraulica (una branca dell’ingegneria che si occupa dei fluidi).

Partiamo da un certo evento di pioggia, caratterizzato da una durata e da una intensità, che scarica sul bacino un determinato volume d’acqua ogni secondo: è la “portata in ingresso”. Contemporaneamente inizierà ad aumentare la portata del fiume, per un certo tempo (detto “di corrivazione”), fino a quando uguaglierà quella della pioggia in ingresso. Da questo momento in poi tanta acqua entra, e tanta acqua defluisce. Il fiume ha raggiunto la portata di massima piena per quella singola pioggia. Appena smette di piovere, la portata del fiume inizia a defluire per un certo tempo, teoricamente corrispondente al tempo di corrivazione, per poi rientrare a livelli ordinari.

Il “tempo di corrivazione” è pertanto un’efficace misura dell’azione frenante del bacino e del suo “effetto spugna”, cioè dell’inerzia con cui il fiume risponde all’intensità della pioggia, grazie al quale il sistema idrogeologico è in grado di diminuire la portata, rallentare il deflusso e immagazzinare acqua negli innumerevoli interstizi del suolo, negli alvei e nei laghi, e di rilasciarla gradualmente e progressivamente al deflusso, creando situazioni più regolari.  Il tempo di corrivazione non dipende solo dalla grandezza e dalla forma del bacino imbrifero: bacini ampiamente forestati e alvei ricchi di vegetazione hanno intuitivamente tempi di corrivazione più lunghi di bacini caratterizzati da pascoli, coltivazioni, tagliate boschive, insediamenti urbani o produttivi. Tempi di corrivazione alti sono preferibili a tempi di corrivazione bassi. Il minor tempo di corrivazione teorico per ogni bacino, lo si ha pensando tutta la superficie impermeabilizzata, ad esempio col cemento. Rispetto alla “ondata” della pioggia, la “onda” di deflusso è più repentina con bassa corrivazione, più lunga e appiattita con alta corrivazione. Se il tempo di corrivazione di un bacino è tanto lungo da superare la durata della pioggia, il fiume non raggiunge mai la portata di massima piena.

Il pericolo correlato all’acqua dipende principalmente dal flusso di energia cinetica, cioè da quanta energia investe ogni metro quadro di superficie durante il suo passaggio, e quindi alla modalità con cui essa si scarica sul territorio e sulle infrastrutture. Sappiamo che, a parità di portata, all’aumentare della velocità di scorrimento, si abbassa la quota del pelo libero (carico piezometrico). Fiumi lenti aumentano il loro livello, bagnando del sponde e le rive, fiumi veloci si abbassano di livello. La somma del carico idrostatico e del carico idrodinamico resta costante.

L’aumento del carico idrostatico  determina un innalzamento del pelo libero dell’acqua. Ovviamente quando questo innalzamento supera la quota del suolo, si ha il fenomeno reversibile dell’allagamento, che crea danni limitati, dovuti alla sommersione. Più preoccupante è invece l’aumento del carico idrodinamico, perché è collegato al flusso dell’energia cinetica dell’acqua, che aumenta con il quadrato della velocità, e può innescare fenomeni erosivi delle sponde e il danneggiamento di alcune tipologie di opere idrauliche. Nei casi peggiori determina un’inondazione dagli effetti irreversibili, con il trascinamento di auto ed edifici.

Gli alberi, sia sui versanti che sulle sponde, svolgono un’imponente azione frenante, perché sono mirabili strutture elastiche che dissipano l’energia di tutti i fluidi che li attraversano.

Le opere idrauliche e gli interventi che rettificano gli alvei, per renderli più lisci e privi di vegetazione, mirano ad abbassare il pelo libero dell’acqua per salvaguardare determinate zone dalla sommersione (campi, ponti, centri abitati, ecc…) ma, aumentando la velocità dell’acqua, aumentano la sua energia cinetica,  correlata con l’ aumento del rischio  che si può correre quando una così alta energia cinetica supera la soglia di contenimento per cui l’opera è stata progettata.

Si possono creare due scenari di rischio; episodi di allagamento più frequenti, ma meno intensi, oppure fenomeni di inondazione meno frequenti ma più distruttivi.

Rinaturalizzando la superficie del bacino, si aumenta in tempo di corrivazione ed il carico idrostatico, determinando scenari del primo tipo. Eseguendo opere o interventi per velocizzare i deflussi, si diminuisce il tempo di corrivazione ed il carico idrostatico, ma si aumenta il carico idrodinamico e si determina il secondo tipo di scenario.

Ogni corso d’acqua scorre generalmente in due differenti domini: un dominio montano-collinare, in cui l’alveo è incassato tra i rilievo del territorio, e nel quale il fenomeno prevalente è l’erosione dell’alveo che, a sua volta, essendo alla base dei versanti, ne provoca il franamento; ed un dominio alluvionale, che inizia immediatamente fuori dall’ultima valle, dove vengono deposti i sedimenti grossolani, fino alla foce, dove si depositano i sedimenti più fini. Per questo motivo le pianure non sono esattamente piatte, ma hanno una pendenza data dalla differenza di quota tra il punto più alto, ai piedi delle montagne, e quello più basso, determinato dalla foce. Grazie al fenomeno della sedimentazione, le pianure tendono ad innalzarsi assieme al fiume. Costruire argini per evitare esondazioni e successive deposizioni di sedimenti, significa accumulare tutto il trasporto solido nell’alveo, che si innalza a dismisura. Questi sedimenti dovrebbero essere rimossi per evitare di dover innalzare continuamente gli argini fino ad altezze improponibili. Tuttavia anche lo scavo degli alvei, benché teoricamente possibile, nella maggior parte dei casi è un intervento improponibile, perché la mole dei sedimenti trasportati dai grandi fiumi è enorme, ed inoltre si creerebbe il problema di dove allocarli, perché solo le migliori ghiaie e sabbie sono adatte a realizzare altre opere (strade, case, ecc…).

In sintesi, quando si parla di dissesto idrogeologico ogni discussione tecnica su cosa sia meglio o peggio fare è del tutto relativa a come si pensa sia preferibile vivere. Abbassare il rischio globale significa diminuire l’energia dell’acqua, altrimenti è solo una scelta su dove spostarlo.

La soluzione migliore sarebbe incominciare da subito a potenziare la naturalità dei bacini; nei domini montani, tagliando meno boschi e favorendo il rimboschimento di terreni abbandonati all’agricoltura; nei domini alluvionali, creando boschi planiziari su terreni agricoli, fino al raggiungimento di un ragionevole equilibrio non solo idrogeologico, ma anche economico e sociale. Ove possibile e non irragionevole, è necessario delocalizzare insediamenti e infrastrutture, liberando le aree di naturale esondazione. Un aumento della biodiversità e della complessità dei sistemi idrogeologici determina un miglioramento dei meccanismi di retroazione che mantengono la stabilità anche del ciclo dell’acqua, i così detti “sevizi ecosistemici di regolazione”. Ogni allontanamento dalle condizioni di stabilità ecologica determina invece una “tensione” potenziale del sistema che, muovendosi in direzione di un suo spontaneo ripristino, tenderà ad aumentare e a perpetuare il rischio.

A seguito della riforma che ha introdotto la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi in Costituzione, la strada maestra, e per certi versi istituzionalmente obbligata, per  affrontare il cambiamento climatico e l’adattamento dei sistemi idrogeologici alla gestione del rischio alluvioni è da leggersi in chiave rigenerativa, piuttosto che manutentiva. In quest’ottica, i consorzi di bonifica potrebbero rappresentare il nodo, forse occulto e indesiderato, che attualmente tende ad abbassare il rischio nelle produzioni agricole, spostandolo altrove, anche nelle città, vanificando così le aspettative di sicurezza delle popolazioni, e rendendo poco efficaci le soluzioni politiche che se lo ripromettono. Sarebbe probabilmente utile una legge in grado di cambiarne il “DNA” in senso ecologico, convogliandone le spese verso interventi di rinaturalizzazione.

Per concludere, è utile conoscere la storia simbolica del “Bosco degli Svizzeri”. Dopo l’alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, mentre tanti giovani, poi noti come “angeli del fango”, prestavano la loro opera volontaria in città, un gruppo di studenti in scienze forestali del Politecnico di Zurigo, in un luogo più defilato, sul Mugello, mise a dimora 13 mila piante provenienti dal vivaio di Vallombrosa, come contributo a Firenze per la prevenzione futura di simili e disastrosi eventi.

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