di Claudio Cazzolla
[vc_row]Prima le Sezioni Unite penali (sent. 41461/2012) e poi la terza sezione penale della Suprema Corte (sent. 45920/2014) hanno individuato i criteri da seguire nella valutazione della deposizione resa dalla persona offesa, stabilendo in via di principio, che, le dichiarazioni della vittima del reato possono anche da sole fondare il giudizio di responsabilità penale dell’imputato.
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La questione della attendibilità della persona offesa e, in particolare, della deposizione testimoniale resa dalla stessa nel processo penale, può essere affrontata partendo da un caso concreto, dove l’imputata, su querela della persona offesa, veniva dichiarata dal Giudice di pace di Noci, colpevole dei reati di lesioni volontarie (art. 582 c.p.) e ingiuria aggravata dal mezzo del telefono (594, co. 2, c.p.).
Nella fattispecie, il Giudice di pace affermava la penale responsabilità dell’imputata, concentrando la motivazione sull’esame della persona offesa costituitasi parte civile e su ulteriori elementi di prova acquisiti al processo, come i referti medici e le dichiarazioni di altri testimoni che avevano assistito però solo ad una parte dei fatti. Le dichiarazioni della persona offesa, dunque, rappresentavano l’unica fonte di prova diretta sui capi d’accusa, dato che gli altri testimoni non avevano assistito a tutti i fatti.
Sul piano codicistico, la valutazione della prova testimoniale è regolata dall’art. 192, co. 1, c.p.p., che stabilisce il principio del “libero convincimento” del Giudice in ordine a tutte le prove acquisite al processo penale. Anzitutto, si rileva il diverso modo di operare del Giudice penale rispetto a quello civile, dato che nel processo civile il Giudice è vincolato al criterio del “prudente apprezzamento salvo che la legge disponga altrimenti”. Quest’ultima espressione, introduce (solo) nel processo civile (art. 116, co. 1, c.p.c.), una sorta di gerarchia tra fonti di prova, che vede all’apice le c.d. prove precostituite (es. documento pubblico, scritture private) e alla base le c.d. prove costituende (testimonianza, confessione, giuramento ecc.). Tale gerarchia non vige nel processo penale (art. 193 c.p.p.), dove il Giudice, pur non godendo di libero arbitrio, è tenuto a dar conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati.
Naturalmente, una sentenza di condanna può ben basarsi esclusivamente sulla dichiarazione di un solo testimone. E, come nel caso che ci occupa, sulle dichiarazioni provenienti dalla stessa persona offesa costituita parte civile. Nel processo civile, contrariamente a quanto accade in sede penale, l’attore o il convenuto non possono assumere la veste di testimone, ma al massimo possono essere sottoposti ad interrogatorio libero o formale, dai quali, rispettivamente, il Giudice può ricavare “argomenti di prova” (art. 117 c.p.c.) o la “confessione giudiziale” (art. 228 c.p.c.). Gli argomenti di prova, non possono da soli fondare il convincimento del Giudice in mancanza di ulteriori elementi probatori che ne confortino la portata esplicativa. La confessione giudiziale, invece, lungi dal produrre effetti favorevoli per il dichiarante, è finalizzata a far entrare nel processo fatti ad egli sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730 ss. c.c.).
Nel processo penale, come abbiamo visto, la persona offesa non è sottoposta alle limitazioni appena evidenziate (art. 197 c.p.p.), potendo, appunto, con le sue dichiarazioni determinare la prova della responsabilità dell’imputato e, dunque, qualora si sia costituita parte civile, ottenere il risarcimento del danno.
Si tratta di una scelta di politica criminale del legislatore, orientata ad agevolare la persecuzione di fatti di rilevanza penale che rischierebbero di rimanere impuniti qualora non si desse alla stessa persona offesa, quale primario e spesso unico testimone dei fatti, la possibilità di testimoniare su di essi. Apparentemente, allora, nel processo penale sarebbe più agevole raggiungere la prova di responsabilità grazie alle dichiarazioni della stessa persona coinvolta nei fatti di reato. Bisogna però osservare che, come contropartita a tale “agevolazione” processuale, il legislatore penale ha stabilito dei limiti invalicabili volti a conformare il processo penale alle esigenze di tutela della libertà della persona (art. 13 Cost.), che non può essere certo compromessa da semplicistiche procedure di acquisizione della prova di colpevolezza.
Il primo limite, è rappresentato dall’art. 533, co. 1, c.p.p., che fa propria la regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, nel senso che l’affermazione della responsabilità penale dell’imputato deve resistere ad ogni tentativo di falsificazione.
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