di Daniela Gentile
Corte di Cassazione, Sezione III penale, sentenza n. 51889 del 21 luglio 2016 e depositata il 6 dicembre 2016
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, lo scarico dei reflui provenienti da impianti di autolavaggio, eseguito in assenza di autorizzazione, integra il reato di cui all’art. 137, comma primo, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non potendo tali acque essere assimiliate a quelle domestiche. Le acque reflue non ricollegabili al metabolismo umano o non provenienti dalla attività domestica hanno carattere industriale, per cui il relativo sversamento sul terreno integra il reato di scarico abusivo.
La Corte di cassazione ha confermato la condanna alle pena di 1.000 euro di ammenda per il rappresentante di una società di autolavaggio. Accanto al dato oggettivo dello sversamento dei reflui sul suolo, fu infatti ravvisato, in capo a quest’ultimo, anche un profilo di colpa, consistente nel mancato apprestamento delle cautele necessarie ad evitare che gli scarichi derivanti dall’attività aziendale, pacificamente qualificabili come “rifiuto”, finissero sul nudo terreno.
1. La ricostruzione della vicenda processuale
Il caso trae origine dalla contestazione, effettuata nei confronti del titolare di un’attività di autolavaggio, di aver tenuto una condotta idonea ad integrare gli estremi del reato di cui all’art. 137 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152; le risultanze investigative consegnavano un quadro probatorio ove emergeva che l’impianto di depurazione, costituito da diverse cisterne in cui sarebbero dovuti confluire i reflui dell’attività, presentava un tubo sottotraccia che faceva defluire le acque accumulate verso un canale limitrofo e, in parte, sul nudo terreno in assenza di qualsivoglia autorizzazione; dal campionamento operato in occasione del controllo si constatava, infine, una concentrazione di idrocarburi superiore a quella consentita dalla normativa in materia.
Il giudice di prime cure ritenne provato sia il dato oggettivo dello sversamento dei reflui sul suolo che un profilo di colpa, consistente nel mancato apprestamento delle cautele necessarie ad evitare che gli scarichi derivanti dall’attività aziendale, pacificamente qualificabili come “rifiuto”, finissero sul nudo terreno.
La pronuncia divenne oggetto di ricorso motivato su una – presunta – errata qualificazione del concetto di “scarico” che, secondo il ricorrente, vedrebbe circoscritto il suo attuale significato ad opera della modifica apportata con D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, che lo definisce come «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collegamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione delle acque reflue con il corpo recettore», in controtendenza rispetto alla precedente formulazione di cui all’art. 74, comma 1, lett. ff) che qualificava come scarico «qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione».
I giudici di Piazza Cavour chiamati a pronunciarsi confermano l’impostazione della sentenza di merito giacché, «con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 156 del 2006, art. 74, comma 1, lett. h), come modificato dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, le acque reflue industriali sono definite come quelle provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti, qualitativamente, dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento. (…) Ne consegue che lo sversamento sul suolo di tali acque, operato, senza autorizzazione, attraverso il tubo interrato rinvenuto dagli accertatori era certamente idoneo a integrare la suddetta fattispecie, restando del tutto irrilevante il dato relativo alla presenza degli idrocarburi che, pur rilevata in occasione del controllo, rappresentava un elemento estraneo all’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice ritenuta applicabile nella specie».
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