Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 111 del 6 aprile 2023 e depositata il 5 giugno 2023.
La richiesta all’imputato o all’indagato di dichiarazioni sui propri precedenti penali e, più in generale, sulle circostanze e condizioni indicate nell’art. 21 disp. att. c.p.p. deve essere sempre preceduta, a pena di inutilizzabilità delle risposte relative, dall’avviso di cui all’articolo 64, comma 3 c.p.p., mediante il quale la persona, fermo il dovere di dichiarazioni veritiere sulle sue generalità, sia avvertita del proprio diritto a non rispondere anche alle domande relative alle proprie condizioni personali e della possibilità che le sue eventuali dichiarazioni, rese su tali circostanze, possano essere utilizzate nei suoi confronti.
L’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, è stato dunque dichiarato illegittimo dalla Corte, per contrasto con l’articolo 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che tale avviso previo sia dovuto alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato in relazione alla richiesta di informazioni di cui all’art. 21 disp. att. c.p.p..
Pertanto la punibilità delle false dichiarazioni relative alle «qualità della propria o dell’altrui persona», ai sensi dell’art. 495 cod. pen., deve ritenersi non in contrasto con l’art. 24 della Costituzione esclusivamente ove la persona sottoposta alle indagini o imputata abbia previamente ricevuto l’avvertimento circa il suo diritto a non rispondere ai sensi dell’art. 64, comma 3, c.p.p..
Conseguentemente, anche l’articolo 495, primo comma, c.p. è stato dalla Corte dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. ma senza ricevere previamente gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
L’obbligo di conformarsi, in applicazione del combinato disposto degli articoli 349, comma 3, e 66 c.p.p. e 21 disp. att. c.p.p., alla formulazione degli articoli del Codice di rito che scaturisce dall’intervento del Giudice delle leggi vincola, dunque, anche la Polizia giudiziaria fin dagli interrogatori nella fase delle indagini preliminari.
La Corte costituzionale perviene a queste conclusioni – sollecitata da un’ordinanza di rinvio del Tribunale di Firenze relativa al caso di una persona che, nell’ambito di un procedimento, aveva falsamente attestato sui suoi precedenti penali – attraverso una puntuale ricostruzione dei diritti della persona sottoposta a indagini e dell’imputato, che sono diritti inalienabili della persona umana, ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione e sulla base del diritto vivente, sostanziato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia.
La tutela al diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all’art. 24 Cost., da leggersi in uno con le disposizioni vincolanti dell’art. 14, comma 3, lett. g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) e dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), con implicita garanzia nell’art. 47 (e – secondo noi – anche 48) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea o Paese e del diritto dell’Unione, è espressione del principio del “nemo tenetur se detegere”. Il diritto al silenzio, osserva la Corte, è il diritto dell’individuo «a non essere costretto» non solo a «confessarsi colpevole», ma anche «a deporre contro sé stesso». La Corte ricostruisce questo principio universale di civiltà giuridica non solo con riferimento alla propria giurisprudenza, ma anche richiamando quella della Corte EDU e della Corte Suprema degli Stati Uniti 384 U.S. 436 [1966], secondo cui la persona, in queste circostanze, deve essere «adeguatamente ed effettivamente informata dei suoi diritti».
Va premesso che l’art. 651 c.p. sanziona il rifiuto di fornire le proprie generalità come reato contravvenzionale, mentre per chi «dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona» l’art. 495 c.p. prevede la pena della reclusione da uno a sei anni. Quest’ultima disposizione, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, disciplina anche la fattispecie delle mendaci dichiarazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini e dall’imputato (ex multis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 4264 del 6 dicembre 2021 – 7 febbraio 2022, e n. 36834 del 20 luglio-5 settembre 2016).
Nulla quaestio con riguardo alle mere generalità: da un lato l’articolo 66, comma 1, c.p.p. impone all’autorità procedente l’obbligo di avvertire la persona sottoposta alle indagini delle «conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false»; dall’altro l’art. 64, comma 3, lettera b), c.p.p. prescrive l’obbligo di avvertire la persona interrogata circa la facoltà di non rispondere ma, fa espressamente «salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1».
Ora, con riferimento all’oggetto delle richieste che, in sede di interrogatorio della persona indagata o imputata, possono essere rivolte dalla Polizia o dall’Autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 21 disp. att. c.p.p., si deve rammentare che in esse si ricomprendono: il soprannome o lo pseudonimo; la disponibilità di beni patrimoniali; le condizioni di vita individuale, familiare e sociale; la sottoposizione ad altri processi penali; l’esistenza di condanne nello Stato o all’estero; l’eventuale esercizio, attuale o trascorso, di uffici o servizi pubblici o servizi di pubblica necessità; l’attribuzione, attuale o trascorsa, di cariche pubbliche.
Tali informazioni, benché suscettibili di un uso contra reum nel corso del procedimento e poi del processo penale, non erano ricomprese tra quelle per le quali dovesse essere dato, ex art. 64, comma 3, c.p.p., alcun previo avviso, in modo da consentire il consapevole esercizio del diritto al silenzio e, nel contempo, di evitare che da tale omissione potessero conseguire le sfavorevoli conseguenze di cui all’articolo 495 c.p..
Qui la Corte, anche con riguardo alle domande indicate nell’art. 21 norme att. c.p.p., osserva che: «Trattandosi infatti di circostanze potenzialmente pregiudizievoli per la persona sottoposta alle indagini o imputata, per di più suscettibili in molti casi di integrare una circostanza aggravante che può determinare drastici innalzamenti di pena, l’onere di dimostrare la sussistenza di tali circostanze – così come di tutte le altre dalle quali dipende la responsabilità penale dell’imputato – non può che gravare sul pubblico ministero, risultando frontalmente incompatibile con l’art. 24 Cost. ogni assetto normativo che miri a imporre alla persona sospettata o accusata di un reato un dovere di fornire informazioni idonee non solo a contribuire alla propria condanna, ma anche ad aggravare la pena applicabile, ovvero a determinare l’adozione di misure limitative dei suoi diritti nell’ambito del procedimento e poi del processo penale».
Per vero, la Corte costituzionale già nella sentenza n. 108/1976 affermava «che l’imputato, solo alla richiesta delle proprie generalità è tenuto a fornire risposta, incorrendo in responsabilità penale qualora si rifiuti di rispondere, o dia false generalità», intendendosi restrittivamente per generalità soltanto «il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita».
Tuttavia la medesima Corte statuiva che se, rinunciando al silenzio, «l’imputato, alla domanda rivoltagli dall’inquirente sui suoi precedenti penali risponde in modo contrario al vero, egli incorre nelle sanzioni previste dall’art. 495 del codice penale».
Una volta che, con l’intervento additivo in esame, la Corte ha integrato l’articolo 64, comma 3, c.p.p. con la previsione secondo cui alla persona interrogata debba essere dato il preavviso ivi previsto anche in relazione alle circostanze di cui all’articolo 21 disp. att. c.p.p., il medesimo Giudice, in a successive condotte di mendacio su tali punti, ne ha ritenuto, ai sensi dell’articolo 495 c.p., la perdurante illiceità. La Corte lascia, infatti, a future scelte del legislatore l’opportunità di valutare, con specifiche norme, se queste dichiarazioni false possano comunque andare esenti da responsabilità in termini sostanziali e processuali.
Resterebbero dunque, a seguito dell’avviso ex art. 64 e secondo l’insegnamento della Corte di cassazione, penalmente illecite non solo le ipotesi di false dichiarazioni in ordine ai propri precedenti penali (Cassazione, sezione quinta penale, sentenza n. 26440 dell’ 8 giugno-8 luglio 2022; conf. n. n. 18476 del 2016, n. 37571 del 2015, n. 32741 del 2014 e n. 18677 del 2007), ma anche quelle di false dichiarazioni relative ad altre circostanze indicate nell’art. 21 delle Norme di attuazione del codice di procedura penale (Cassazione, Sezione feriale, sentenza n. 34536 del 4-11 settembre 2012, relativamente alla falsa affermazione di essere laureato in giurisprudenza, in sede di interrogatorio davanti al giudice per le indagini preliminari;, Sezione quarta, n. 2497 sentenza 14-24 gennaio 2022, in relazione alla generalità delle dichiarazioni circa le proprie condizioni e qualità personali, per escludere la finalità di uso personale di sostanze stupefacenti; in relazione alle false affermazioni sui propri precedenti penali, ex multis, Corte di cassazione, e n. 18476 del 2016;, Corte di cassazione, sentenza n. 34536 del 2012).
In definitiva, poiché “la garanzia effettiva del diritto a non contribuire alla propria incriminazione esige la previsione di idonei strumenti procedurali”, il previo avviso di cui all’articolo 64, comma 3, c.p.p. deve obbligatoriamente e concretamente assolvere, con espresso riferimento alle circostanze elencate all’articolo 21 disp. att., alla funzione di tutela del “diritto al silenzio”. Esso è sempre espressamente dovuto all’indagato e all’imputato, a pena d’inutilizzabilità delle loro dichiarazioni.
Assolta la formalità dell’avviso, però, la persona indagata o imputata può legittimamente esercitare il diritto di non rispondere o, in alternativa, ha l’obbligo di dire la verità, incorrendo, in caso di mendacio, nella sanzione di cui all’articolo 495 c.p..
Resta sempre fermo l’obbligo di fornire le autentiche generalità all’Autorità che le richieda.