di Annalisa Imparato e Gianluca Luchena
Il conflitto tra Israele e Hamas si colloca geograficamente in un ristretto fazzoletto di terra che si affaccia sul Mediterraneo, ma comporta potenziali ripercussioni su un’area decisamente più ampia, molto eterogenea dal punto di vista etnico, linguistico e religioso: il Medio Oriente. Storicamente, gli scontri tra le due citate fazioni, che malvolentieri coesistono nella medesima area, hanno seguito un andamento altalenante, con periodi più o meno tesi ed eventi a carattere episodico caratterizzati da uno schema piuttosto basilare: attacco-risposta-tregua e ritorno allo status quo. La rivalità si protrae per anni, senza che si riesca mai veramente a stabilire delle regole di convivenza condivise ed accettate dalle parti, a causa delle divergenze politiche, delle questioni territoriali e dei rifugiati, oltre che delle controversie storiche. Per avere un esempio concreto di come la situazione sia esplosiva e possa incendiarsi da un momento all’altro, basta guardare quanto accaduto nel 2021. Poco dopo l’inizio del ramadan, la Corte Suprema di Israele decide di sgomberare alcuni residenti palestinesi a Sheikh Jarrah, un quartiere di Gerusalemme Est nei pressi della Porta di Damasco, luogo di ritrovo per i musulmani del posto e zona contesa che vede da anni crescere la presenza di famiglie ebraiche attorno alla tomba di un antico rabbino. Le proteste si trasformano rapidamente in scontri violenti tra manifestanti ebrei e palestinesi con incidenti che portano la polizia israeliana a intervenire nel complesso della moschea al-Aqṣā, un sito sacro islamico, arrivando a causare più di 300 feriti. La sentenza della Corte israeliana viene rapidamente rinviata ma la tensione è ormai altissima e porta Hamas e la Jihad islamica palestinese ad attaccare militarmente Israele, lanciando razzi e missili dalla Striscia di Gaza contro le città israeliane. Tel Aviv, in risposta, lancia l’operazione “Guardiani delle Mura”, con attacchi aerei contro obiettivi militari e governativi all’interno di Gaza. Gli scontri sono durissimi con perdite da ambo le parti: la tregua arriverà poco più di 10 giorni dopo ma, purtroppo, non durerà a lungo. I territori della Cisgiordania e della Striscia di Gaza infatti e la loro relazione con lo Stato israeliano continuano a rappresentare uno dei punti critici del conflitto israelo-palestinese, che vede alti e bassi continui e rigurgiti di violenza periodici. Dal 2007, a seguito della sconfitta di Fatah, Gaza è governata di fatto da Hamas[1] che è considerata dagli Stati Uniti e dalla stessa Israele un’organizzazione terroristica. Lo stato ebraico rinuncia al controllo diretto della striscia mantenendo tuttavia un blocco terrestre, aereo e marittimo sulla stessa, con gravi conseguenze per gli abitanti palestinesi. In quella porzione di terra affacciata sul Mediterraneo, infatti, vivono più di 2 milioni di persone: l’80% della popolazione sopravvive grazie agli aiuti umanitari, il 64% delle famiglie è a rischio insicurezza alimentare e il tasso di disoccupazione si attesta al 45%[2].
Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa e altre organizzazioni internazionali, il blocco viola le Convenzioni di Ginevra, ma Israele respinge l’accusa sostenendo che sia fondamentale per la propria sicurezza e abbia lo scopo di mantenere il controllo sul confine, impedire il rafforzamento di Hamas e scongiurare eventuali attacchi.
Nella zona Occidentale del fiume Giordano, invece, a Est di Israele, vi sono i territori della Cisgiordania che, a seguito “Guerra dei sei giorni” e dell’occupazione israeliana del 1967, è stata suddivisa sulla base degli Accordi di Oslo del 1993 in tre zone: A, B e C. La prima rappresenta la fascia di territorio in mano all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e corrisponde attualmente al 17% della Cisgiordania; l’area B (24%) è gestita congiuntamente da ANP e Israele, mentre l’area C (59%) è sotto il controllo israeliano[3].
In tale intricato mosaico geografico e, dopo anni di scontri, tafferugli e incidenti, si collocano gli eventi scabrosi del fatidico 7 ottobre scorso che hanno segnato una frattura talmente importante nelle relazioni tra le due parti da rappresentare un momento di profonda rottura rispetto alla desolante ma consolidata prassi, scoperchiando quel pericoloso “calderone” in cui da tempi lontani ribollono rabbia, rancore, risentimento e dando vita a una guerra che presenta tanti lati oscuri, che sta dilaniando un territorio già gravato, come detto, da anni di sofferenze.
Il puzzle geopolitico del Medio Oriente, infatti, storicamente intricato e frammentato, si sta coagulando e clusterizzando intorno alle due fazioni contrapposte, rischiando di tramutare un conflitto locale in uno scontro di ben più ampio respiro. L’appoggio e il sostegno economico e militare americano ad Israele e la volontà di quest’ultimo di liberarsi una volta e per tutte dalla minaccia posta da Hamas, hanno automaticamente innescato una reazione a catena da parte di altri attori, primo tra tutti l’Iran, potenza regionale, baluardo sciita nella penisola araba e nemico giurato di Israele, di cui non riconosce la legittimità e con cui ha interrotto ogni relazione diplomatica.
Emerge quindi un quadro molto complesso di attori e di interessi differenti, contaminato da forti ideologie e pericolosamente trascinato sull’orlo dell’implosione dall’azione spregiudicata di una galassia di organizzazioni terroristiche e gruppi di guerriglieri che, da un lato e dall’altro, conducono le c.d. “guerre per procura”. Ai gruppi salafiti e jihadisti antisciiti e votati all’eliminazione della pluralità identitaria e religiosa del Medio Oriente a favore della propria visione islamico-radicale si contrappone la postura aggressiva delle organizzazioni vicine alla potenza persiana, tra cui Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Tuttavia, tali movimenti vicini alla causa sciita, forniscono opportunisticamente supporto ad Hamas e allo Jihad islamico palestinese (Jip) –movimenti sunniti e fondamentalisti –in chiave anti-Israele. Ciò che rende ancor di più incandescente la situazione, però, è il fatto che gli Houthi hanno il loro quartier generale in Yemen, Paese di cruciale importanza geopolitica per il fatto, tra l’altro, che si affaccia sullo stretto di Bāb el-Mandeb che, per ironia del destino si traduce in italiano con “porta del lamento funebre”. Per alcuni anche “porta delle lacrime”
Si tratta di un canale con una grandezza minima di appena 30 km che, per importanza strategica, si colloca tra i primissimi posti nella classifica dei “choke point” più controllati al mondo. L’espressione che letteralmente significa “collo di bottiglia”, fa riferimento a passaggi di mare stretti e obbligati in cui le navi devono passare per potersi spostare tra mari e oceani diversi. Chi li controlla, controlla il commercio regionale e globale. Ed è proprio su questo stretto che, negli ultimi mesi, si stanno consumando una serie di attacchi da parte dei guerriglieri Houthi ai danni di mercantili civili in transito, in segno di solidarietà nei confronti della popolazione palestinese e quale rappresaglia per costringere la comunità internazionale ad intervenire per far desistere Israele dalla sua azione militare ai danni di Hamas. Il mondo sciita non vuole la vittoria schiacciante di Israele a Gaza, né può tollerare che Israele esca rafforzato da questo conflitto.
Gli attacchi ai mercantili nello stretto di Bāb el-mandeb
Il termine Houthi fa riferimento al movimento “Ansar Allah” –dall’arabo “partigiani di Dio” -che identifica un gruppo armato e politico dell’estremo nord dello Yemen, composto principalmente da combattenti della confessione zaydita, una branca minoritaria dell’islam sciita[4]. Il gruppo armato nasce inizialmente in contrapposizione al regime di Ali Abdallah Saleh, presidente e dittatore dello Yemen dal 1990 al 2012, manifestando posizioni marcatamente anti-USA e anti-Israele, soprattutto dopo l’invasione americana del 2003 in Iraq. Al tentativo di repressione del movimento da parte del governo in carica segue una vera e propria rivolta degli Houthi (“le guerre Sa’da”), proseguita dal 2004 a fasi alterne fino a un debole cessate il fuoco nel 2010. Dal 2011, sulla scia delle primavere arabe, gli Houthi promuovono sommosse e lotta armata in tutto il Paese giungendo di fatto a prendere il controllo di importanti aree dello Yemen dove, dal 2014 circa, inizia a cristallizzarsi uno scenario politico-militare bipolare: da una parte gli Houthi sostenuti dall’Iran, paese guida dei movimenti politico-militari sciiti, dall’altra il governo riconosciuto dalla comunità internazionale spalleggiato, in modo istituzionalizzato a partire dal 2015, da una Coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita. Nel 2015, gli Houthi sbaragliano i filogovernativi e prendono con la forza i palazzi del potere.
Dall’ottobre del 2023, per venire all’attualità, il movimento ha iniziato a perpetrare una serie di attacchi con droni armati e missili alle navi cargo nello stretto di Bāb el-Mandeb che separa lo Yemen dall’Africa orientale –e rappresenta la porta di accesso delle navi nel Mar Rosso e nel Canale di Suez. Ufficialmente in segno di solidarietà nei confronti dei palestinesi e quale ritorsione verso la campagna terrestre nella striscia di Gaza da parte di Israele. Tali attacchi, non particolarmente significativi da un punto di vista prettamente militare, hanno tuttavia avuto una risonanza mediatica enorme portando fama internazionale al movimento, a causa degli effetti dirompenti della loro azione ostile sul commercio internazionale. Sulla rotta Bāb el-Mandeb-Suez, che è parte anche della “Belt&Road Initiative” cinese – per cui transitano le unità navali interessate alla BRI; al momento non appartiene ancora alla Cina – e che collega l’Asia al Mediterraneo e, attraverso Gibilterra, alla costa atlantica sia europea sia nord americana, viaggiano circa 26 mila navi all’anno, ossia circa il 12% delle merci e il 30% dei container a livello globale[5].
In termini energetici il canale rappresenta il 10% dei prodotti petroliferi raffinati, l’8% del Gas Naturale Liquefatto e il 5% del greggio. Inoltre, lo stretto registra il transito annuo del 14,6% dell’import mondiale dei prodotti cerealicoli e del 14,5% dell’import mondiale dei fertilizzanti agricoli. Se si osservano i dati riferiti specificatamente all’Italia, poi, la situazione appare particolarmente preoccupante in quanto per Suez transita il 40% circa dell’import/export marittimo nazionale, per un totale di 154 Mld€/anno[6]. Il timore degli attacchi e l’alto indice di pericolosità delle acque in questione hanno avuto ripercussioni immediate e dirompenti sul flusso mercantile nel canale. Diverse compagnie di navigazione commerciali e da diporto, infatti, ordinano ogni giorno alle proprie navi di non entrare nello stretto di Bab el-Mandeb stante l’attuale scarso livello securitario, preferendo piuttosto la più dispendiosa rotta che lambisce il Capo di Buona Speranza, a sud del continente africano.
La circumnavigazione dell’Africa, tuttavia, comporta un allungamento dei tempi e dei costi del trasporto, con conseguenze inevitabili sul mercato dei beni trasportati (l’ISPI stima che gli attuali maggiori costi di trasporto potrebbero far aumentare i prezzi generali in Europa del +1,8% entro 12 mesi), sui livelli di inflazione e sulle supply chain industriali. Se si considera ad esempio il viaggio di una tanker ship dal Golfo Persico in Europa, ad una velocità media di 12.5 nodi, si registrano: un aumento del 120% delle miglia nautiche rispetto alla rotta di Suez (11.140 Nm Vs 5.020 Nm), un incremento del tempo necessario (39 giorni, anziché 18), un aumento del costo del bunker oil (ossia del combustibile per le navi) da 0.54 M€ a 1.20 M€[7]. Ma cambiare rotta significa anche, da una prospettiva nazionale, una perdita di centralità del Mediterraneo, un minor traffico nei nostri porti con ripercussioni notevoli in termini di posizionamento, indotto e lavoro. Secondo i dati ISPI, da fine dicembre i traffici commerciali nazionali hanno fatto segnare una riduzione superiore al 20% e, in particolare, una riduzione delle consegne di gas qatarino[8] del 70% rispetto alla media del 2023.
Ciò è evidentemente collegato alla riduzione dei transiti giornalieri nel canale egiziano che, tra il 28 dicembre e il 1° gennaio ha registrato un calo del 38% rispetto alla media della prima metà del mese di dicembre 2023. Analizzando le navi per tipologia, i transiti di portacontainer sono diminuiti del 72%, quelli di navi gasiere per GPL del 60%, di trasporti di autovetture del 49% e di metaniere del 35%. A rendere ancora più preoccupante il quadro, sono gli effetti c.d. di secondo tempo: le assicurazioni marittime sono lievitate negli ultimi mesi e, secondo i dati riportati dal “Drewry Container Index”, i noli container FEU (ossia da 40 piedi) sulla tratta Shanghai-Genova sono aumentati dall’11 gennaio 2023 all’11 gennaio 2024 dell’85%.
Si intuisce bene, a tal proposito, il motivo per cui l’allarme causato dagli attacchi ai mercantili stia risuonando in maniera così importante e perché i leader dei principali Paesi Occidentali si stiano adoperando per trovare, con estrema urgenza, una soluzione.
La missione Europea ASPIDES
L’articolo 44 del Trattato sull’Unione europea (TUE) prevede che il Consiglio Europeo possa affidare una missione ad un gruppo di Stati membri che vogliano prendervi parte e che la gestiscono insieme all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. A tal proposito, il 19 febbraio scorso i Ministri degli Esteri dell’Unione Europea, in occasione del Consiglio Affari Esteri, hanno approvato il lancio della missione “Eunavfor Aspides” (dal greco antico “scudo, difesa”) per ripristinare la sicurezza marittima nel Mar Rosso e nella parte settentrionale dell’Oceano Indiano, assicurando la libertà di navigazione.
La missione, della durata di un anno (estendibile previa decisione del Consiglio UE), è stata approvata –allo stato attuale –da Francia, Germania, Grecia, Italia, e vi hanno aderito anche Portogallo, Danimarca, Paesi Bassi e Belgio[9] (ma è aperta all’ingresso di altri Paesi che volessero contribuire) e prevede al momento lo schieramento di quattro navi, oltre ad un pattugliamento aereo. La sede del comando Strategico è prevista a Larissa in Grecia (punto strategico non lontano dal Mar Rosso) mentre il Comando Tattico e Operativo imbarcato (ossia l’autorità di assegnare compiti e di coordinare l’attività delle Forze schierate, nell’ambito della missione assegnata e non modificabile) è stato attribuito all’Italia, con il C.A. Stefano Costantino.
Le regole di ingaggio della missione prevedono la possibilità di aprire il fuoco per scopo difensivo (non è infatti contemplata la possibilità di attacchi sul territorio yemenita), ossia per proteggere l’incolumità degli equipaggi schierati e delle navi civili in transito nel delicato tratto di mare, proprio come recentemente accaduto ad opera dell’equipaggio del cacciatorpediniere italiano Caio Duilio (su cui è imbarcato il Force Commander italiano) che ha ingaggiato e distrutto un drone in avvicinamento ostile.
Al momento nell’area che lambisce il golfo di Aden vi sono altre missioni in corso.
La prima è l’Operazione Atalanta, con cui Aspides mantiene uno stretto coordinamento: istituita nel 2008 è finalizzata a proteggere il Programma Alimentare Mondiale (PAM) e altre imbarcazioni vulnerabili; dissuadere, prevenire e reprimere la pirateria e le rapine a mano armata in mare; monitorare le attività di pesca nel Corno d’Africa e nell’Oceano Indiano occidentale; combattere il traffico di droga e contribuire all’embargo sulle armi in Somalia, al commercio illecito di carbone di legna e alla pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata (INN). Dall’11 febbraio u.s. tale operazione vede l’Italia al comando con Il C.A. Saladino che esercita le funzioni di Force Commander a bordo della fregata Martinengo (fino a giugno 2024). La seconda operazione è la Emasoh/Agenor, nata su iniziativa francese, attiva nello Stretto di Hormuz, tra la Penisola arabica e l’Iran e con un comando operativo ad Abu Dhabi. Tale operazione sarà verosimilmente assorbita dalla missione Aspides.
Vi è, inoltre, l’operazione Prosperity Guardianche vede lo schieramento di una Task Force a lead USA, con la partecipazione della Gran Bretagna, finalizzata alla difesa della libera circolazione dei mercantili nella delicata area del Mar Rosso, ma con un mandato più spinto, che prevede anche la possibilità di attaccare le basi di lancio sul territorio yemenita (come peraltro già avvenuto).
[1] Hamas è stata fondata nel 1987 durante la prima intifada, un periodo di proteste e rivolte contro l’occupazione israeliana nei territori palestinesi. Dispone di un braccio politico e di un braccio militare, ha una visione islamica e mira a liberare la Palestina dall’occupazione israeliana. L’organizzazione si oppone al processo di pace con Israele e sostiene la resistenza armata.
[2] Fonte ISPI.
[3] Secondo il censimento Onu del marzo 2023, sono circa 279 le colonie israeliane in Cisgiordania: la gran parte di esse si sono insediate grazie agli incentivi economici elargiti da Tel Aviv.
[4] Lo Sciismo viene normalmente distinto in tre grandi filoni: quello maggioritario dei Duodecimani (o Imamiti, che riconoscono cioè la successione di dodici Imam), quello degli Ismailiti (o Settimani) e quello degli Zayditi.
[5] Dati Srm
[6] Dati Assoporti
[7] Dati Clarkson Research
[8] Che conta per circa il 10% del gas consumato in Italia.
[9] Irlanda e Spagna hanno comunicato che non invieranno né uomini né mezzi