Antonello MadeoFOCUS

Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati

di Antonello Madeo

Lo scritto prospetta un breve focus sul Disegno di legge Costituzionale con il quale il Governo ha di recente aperto la strada alla separazione delle carriere dei magistrati, tema oggetto di annoso dibattito tra le forze politiche ma anche tra gli addetti ai lavori – magistratura e avvocatura – che difficilmente sarà sopito dal novum. Sullo sfondo anche di questa rilevante modifica – dopo la riforma Cartabia – si staglia un nuovo modo di pensare il magistrato, chiamato ad una rivoluzione culturale cui potrebbe aderire senza pregiudizi, per non rischiare di subirla.


 

  1. Le principali modifiche introdotte dal Disegno di legge costituzionale.

 Com’è noto, lo scorso 29 maggio 2024 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge costituzionale per l’introduzione di norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare, la cui finalità è distinguere, all’interno della magistratura – che “costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” – la carriera dei magistrati giudicanti e quella dei magistrati requirenti, e di adeguare l’ordinamento costituzionale a tale separazione (art. 104 Cost. nella nuova formulazione).

La conseguenza è l’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e del Consiglio Superiore della Magistratura requirente[1], entrambi presieduti dal Presidente della Repubblica (artt.: 87 c. 10, 104 c. 2 primo periodo Cost. nella nuova formulazione), dei quali fanno parte di diritto, rispettivamente: il primo Presidente (per il C.S.M. giudicante) e il Procuratore generale della Corte di cassazione (per il C.S.M. requirente). Gli altri componenti sono estratti a sorte: per un terzo, da un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio, che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione; per due terzi, rispettivamente, tra i magistrati giudicanti e i magistrati requirenti, nel numero e secondo le procedure previste dalla legge (art. 104 c. 2 terzo periodo Cost. nella nuova formulazione).  Ciascun Consiglio Superiore elegge il proprio vicepresidente fra i componenti sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento (art. 104 c. 3 primo periodo Cost. nella nuova formulazione). I membri designati mediante sorteggio durano in carica quattro anni e non possono partecipare alla procedura di sorteggio successiva (art. 104 c. 3 secondo periodo Cost. nella nuova formulazione). Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale (art. 104 c. 3 terzo periodo Cost. nella nuova formulazione). Spettano a ciascun Consiglio Superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le valutazioni di professionalità e i conferimenti di funzioni nei riguardi dei magistrati (art. 105 c. 1 Cost. nella nuova formulazione).

Novità di non meno rilievo è che, a seguito della riforma, la giurisdizione disciplinare nei riguardi dei magistrati ordinari[2] – giudicanti e requirenti – è attribuita non più al C.S.M. bensì ad una inedita “Alta Corte disciplinare” (artt.: 102 c. 1, 105 c. 2 primo periodo Cost. nella nuova formulazione), costituita da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio, e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione, nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie, e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità (art. 105 c. 2 secondo periodo Cost. nella nuova formulazione).

I giudici dell’Alta Corte durano in carica quattro anni e l’incarico non può essere rinnovato (art. 105 c. 3 secondo e terzo periodo Cost. nella nuova formulazione). L’ufficio di giudice dell’Alta Corte è incompatibile con quello di membro del Parlamento, del Parlamento europeo, di un Consiglio regionale o del Governo, con l’esercizio della professione di avvocato e con ogni altra carica e ufficio indicati dalla legge (art. 105 c. 3 quarto periodo Cost. nella nuova formulazione). L’Alta Corte elegge il presidente tra i giudici nominati dal Presidente della Repubblica e quelli sorteggiati dall’elenco compilato dal Parlamento (art. 105 c. 3 primo periodo Cost. nella nuova formulazione).

La legge determina gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni, indica la composizione dei collegi, stabilisce le forme del procedimento disciplinare e le norme necessarie per il funzionamento dell’Alta Corte, e assicura che i magistrati giudicanti o requirenti siano rappresentati nel collegio (art. 105 c. 4 secondo periodo Cost. nella nuova formulazione). Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte, che giudica tuttavia senza la partecipazione dei componenti che hanno concorso a pronunciare la decisione impugnata (art. 105 c. 4 primo periodo Cost. nella nuova formulazione).

Il testo prevede, infine, che le leggi sul Consiglio Superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare siano adeguate alle nuove disposizioni entro un anno dall’entrata in vigore della legge di riforma costituzionale.

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  1. L’annoso problema della separazione delle carriere: detrattori e sostenitori del progetto di riforma.

Il tema della separazione delle carriere (così come quello delle intercettazioni) costituisce da decenni il cavallo di battaglia della politica – più o meno senza distinzioni di colore – sulla Giustizia. In questa sede possiamo solo dar conto delle principali ragioni a favore e contro l’articolato normativo oggetto del Disegno di Legge.

Parte della dottrina – appartenente alla magistratura requirente – aveva provato di recente a ridimensionare il problema del passaggio tra le carriere[3] dei magistrati, osservando come «…ciò che attiene al processo penale ed ai suoi attori è materia in equilibrio instabile e in perenne movimento. Sotto la crosta spessa e pressoché immutabile delle affermazioni tralatizie ha continuato a scorrere un magma fluido composto di materiali diversi: l’introduzione di norme ordinamentali sempre più limitative dei cambi di funzione, lo svolgimento dell’attività professionale in contesti organizzativi diversi, il radicarsi di diverse aspettative, aspirazioni ed etiche professionali. Ne è stata rimodellata la fisionomia delle figure del giudice e del pubblico ministero e sono stati ridisegnati i loro rapporti...».

Sotto un profilo strettamente professionale, i sostenitori della separazione delle carriere sostenevano che essa avrebbe favorito l’utile e necessaria “specializzazione” del pubblico ministero, mentre i critici opponevano che non era affatto desiderabile una netta differenziazione dei processi formativi e delle conoscenze delle due categorie di magistrati, destinata con ogni probabilità a produrre un giudice privo di una approfondita conoscenza della realtà delle indagini e un pubblico ministero prevalentemente radicato nella cultura e nelle prassi di polizia.

Sul versante processuale, i fautori della separazione avevano costantemente posto l’accento sulla necessità di recidere il rapporto di colleganza tra giudici e pubblici ministeri, in modo da rendere effettiva la parità delle parti nel processo ai sensi dell’art. 111 c. 2 Cost.; dal canto loro, i difensori dell’unicità delle carriere replicavano che, nell’attuale contesto storico, non vi fosse alcuna evidenza né di un “pregiudizio favorevole” né dell’asserita “subalternità”, facendo appello sia ad un dato “quantitativo” – la percentuale di assoluzioni nei processi penali – sia al dato “qualitativo” degli esiti sfavorevoli per il pubblico ministero di processi di eccezionale rilievo, su cui grandi Procure avevano molto investito in termini di energie investigative e di immagine.

Infine, sul piano delle relazioni tra poteri degli organi costituzionali, la separazione delle carriere veniva rivendicata come indispensabile garanzia contro invasioni di campo e straripamenti di potere delle Procure della Repubblica, mentre in senso contrario si osservava che, se necessitava una cultura del limite della giurisdizione penale, questa dove essere una cultura “comune” a giudici e pubblici ministeri, giacché un atteggiamento di salutare self restraint degli attori della giustizia penale non poteva che scaturire dal costante confronto di esperienze e punti di vista all’interno del corpo della magistratura oltre che con i mondi dell’università e dell’avvocatura . Sullo sfondo di ogni discussione aleggiava, comunque, la prospettiva – dagli uni negata, dagli altri insistentemente evocata – dell’assorbimento nella sfera dell’esecutivo di un pubblico ministero separato dal giudice.

Altra dottrina – questa volta di matrice “giudiziale” [4] – pur non negando che seri problemi della giustizia penale nascevano da una autoreferenzialità di molti pubblici ministeri, e che, anche a seguito della riforma Cartabia, il passaggio dal ruolo del P.M. a quello del Giudice era diventato affatto trascurabile per numero, si pronunciava contro la separazione, al fine di evitare che potesse tradursi in una ulteriore scissione culturale, che avrebbe finito per vanificare lo stesso progetto costituzionale. Ciò in quanto la giurisdizione può essere un potere effettivamente autonomo e democratico solo in quanto coinvolga i magistrati del pubblico ministero e si presenti come espressione dell’intera cultura giuridica, progredendo sulle gambe di tutti i ceti professionali che la esprimono. Privati di una cultura unificante, i giudici non potrebbero tener fede a questo impegno civile.

Il 13 maggio 2024, l’Associazione Nazionale Magistrati licenziava la mozione finale del 36° congresso, celebratosi a Palermo, ribadendo[5]: «… la propria intransigente contrarietà alla separazione delle carriere e al complessivo indebolimento del CSM che ne costituiscono il contenuto principale. L’unicità della magistratura è valore fondante del nostro associazionismo: tale sua caratteristica ontologica è incompatibile con ogni possibilità di mediazione e trattativa sugli specifici contenuti delle riforme. La separazione delle carriere non è affatto funzionale a garantire la terzietà del giudice ma appare piuttosto uno strumento per indebolire in modo sostanziale il ruolo del pubblico ministero e, conseguentemente, la funzione di controllo di legalità rimessa al giudice e lascia presagire che venga agitata come strumento di ritorsione e minaccia nei confronti della magistratura tutta. Oggi giudici e pubblici ministeri sono uniti nell’esercizio della giurisdizione, hanno una comune cultura e fruiscono delle stesse garanzie costituzionali. Separarli rischia concretamente di attrarre la magistratura requirente nell’orbita del potere politico e del controllo governativo, come avviene, in modo formale o sostanziale, in tutti i Paesi nei quali la magistratura è separata. Il superamento dell’unica matrice culturale tra giudici e pubblici ministeri si tradurrebbe inevitabilmente nella rinuncia a valori nevralgici per la democrazia, e innanzitutto all’obiettivo della imparziale ricerca della verità che il pubblico ministero deve perseguire, come il giudice. Separare il pubblico ministero dal giudice, quali che siano le modalità di tale separazione, distinguere le carriere all’accesso e dal punto di vista ordinamentale, separare gli organi di autogoverno, porterebbe alla istituzione di una figura professionale di “pubblico persecutore”, molto lontana dall’attuale organo dell’accusa, che, lo ricordiamo, oggi è preposto alla ricerca della verità ed è garante del rispetto delle prerogative dell’indagato, anche nella fase della raccolta delle prove da parte della polizia giudiziaria. Separare il pubblico ministero dal giudice avrebbe gravissime ripercussioni sull’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale indispensabile per l’attuazione del principio di eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge. Alla logica della separazione l’ANM vuole contrapporre la logica della condivisione. La matrice culturale della giurisdizione deve essere strettamente condivisa tra giudici, avvocati e pubblici ministeri, perchè solo attraverso una formazione culturale comune e la circolarità delle esperienze potrà realizzarsi una giustizia migliore e più giusta. L’ANM ribadisce, inoltre, che il CSM è l’unico presidio posto dalla Costituzione a tutela dell’autonomia ed indipendenza della magistratura, che è indispensabile per realizzare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Le riforme prospettate indebolirebbero fatalmente l’organo di autogoverno dei magistrati, riducendone le competenze, eliminando quelle di maggior rilievo, compromettendone l’autorevolezza e alterando la proporzione tra componenti laici e togati. Tale indebolimento pregiudica la realizzazione dell’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini». La mozione si concludeva con l’avvertimento che «…l’ANM, in armonia con il deliberato dell’Assemblea generale straordinaria del 26.11.2023, è determinata ad assumere ogni utile iniziativa per informare l’opinione pubblica in ordine alla propria argomentata opposizione a tale riforma, ed invita da subito tutti gli iscritti ad una mobilitazione culturale e comunicativa che faccia comprendere i rischi che questa comporta per l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e per la scrupolosa osservanza delle loro garanzie costituzionali…».

Nonostante la chiara presa di posizione dell’ANM, il Governo tirava dritto per la propria strada, approvando in data 29.5.2024 il disegno di legge costituzionale in commento.

Nettamente a favore la posizione dell’avvocatura. L’Unione delle Camere Penali[6] – attraverso il Presidente Francesco Petrelli – il 29.5.2024 osservava infatti che «il testo governativo ad una prima lettura appare conforme alle attese in quanto segue le fondamentali linee della nostra proposta di riforma costituzionale di iniziativa popolare del 2017. Abbiamo sempre ritenuto perfettibile la riforma costituzionale delle carriere, consapevoli della rilevanza di tale intervento, per cui si tratta di valutare attentamente questo nuovo disegno. Due consigli presieduti dal Presidente della Repubblica sono garanzia di effettiva separazione e al tempo stesso di assoluta autonomia e indipendenza interna ed esterna di Pubblici Ministeri e Giudici. Auspichiamo che il governo, assunta la responsabilità di questo nuovo testo, sappia coerentemente portare a compimento una riforma che l’avvocatura penale ha sempre ritenuto fondamentale per garantire ai cittadini un giudice terzo, in attuazione del giusto processo voluto dalla nostra Costituzione...».

Altrettanto netta la contrarietà dell’Associazione Nazionale Magistrati[7]. In un comunicato licenziato il 29.5.2024 la Giunta esecutiva centrale tuonava che “la logica di fondo del disegno di legge sulla separazione delle carriere e l’istituzione dell’Alta corte si rintraccia in una volontà punitiva nei confronti della magistratura ordinaria, responsabile per l’esercizio indipendente delle sue funzioni di controllo di legalità. Gli aspetti allarmanti delle bozze del disegno di legge sono molteplici, leggiamo una riforma ambigua che crea un quadro disarmante. È una riforma che non incide sugli effettivi bisogni della giustizia, ma che esprime la chiara intenzione di attuare un controllo sulla magistratura da parte della politica, che si realizza essenzialmente con lo svilimento del ruolo e della funzione di rappresentanza elettiva dei togati del Csm e con lo svuotamento delle sue essenziali prerogative disciplinari, affidate a una giurisdizione speciale di nuovo conio”. “Quella di oggi è una sconfitta per la giustizia, significa dar più potere alla maggioranza politica di turno, danneggiando innanzi tutto i cittadini. Per assumere nuove iniziative e per avviare una mobilitazione importante, anche dai territori, abbiamo deciso di convocare un Comitato direttivo centrale di urgenza che si terrà il 15 giugno prossimo”, concludeva la Giunta.

 

  1. L’irreversibile processo di cambiamento della magistratura.

In estrema sintesi, secondo la magistratura associata la separazione delle carriere rischia concretamente di: a) attrarre la magistratura requirente nell’orbita del potere politico e del controllo governativo, come avviene, in modo formale o sostanziale, in tutti i Paesi nei quali la magistratura è separata; b) portare alla istituzione di una figura professionale di “pubblico persecutore”, molto lontana dall’attuale organo dell’accusa, che oggi è preposto alla ricerca della verità ed è garante del rispetto delle prerogative dell’indagato, anche nella fase della raccolta delle prove da parte della polizia giudiziaria; c) minare l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale indispensabile per l’attuazione del principio di eguaglianza del cittadino dinanzi alla legge.

Ma è proprio così? Oppure si sottovaluta che, a proposito di obbligatorietà dell’azione penale, un processo irreversibile di cambiamento è già in essere ormai da un paio d’anni?

Si pensi ad alcune delle modifiche introdotte dal D. Lgs. 150/2022 (riforma Cartabia)[8]  per la fase delle indagini preliminari, che hanno inciso in maniera dirompente su istituti fondamentali che pertengono non solo al “momento genetico del procedimento” – ovvero l’iscrizione della notizia di reato e del soggetto (persona fisica o giuridica) cui esso è da attribuire – ma anche al “momento genetico del processo” – quel segmento procedimentale che culmina nelle determinazioni del P.M. sull’esercizio dell’azione penale (in sede di valutazione su richiesta di archiviazione/esercizio dell’azione), del GUP e del Giudice dell’udienza predibattimentale sulla necessità del vaglio dibattimentale (in sede di decisione su proscioglimento/rinvio a giudizio)-.

Il novum – seguendo l’ispirazione di fondo della riforma[9]: perseguire una maggiore efficienza[10] nella salvaguardia delle garanzie, anche accelerando il processo penale[11] –  aveva previsto: da un lato, la precisazione dei presupposti per la iscrizione della notizia di reato prima, e la “selezione dei criteri di priorità” nel perseguimento dei fatti di reato da parte del Pubblico Ministero poi, finalità che però – era stato osservato[12] – non era compresa in alcun modo in ciò che ci chiedeva l’Europa, «un’affermazione ormai di rito che rischia di trasformarsi in un alibi se non la si  usa con attenzione»; dall’altro, un diverso parametro di giudizio dei fatti oggetto di indagine ai fini dell’esercizio dell’azione penale.

I primi commenti[13] alla riforma rilevavano come dietro alle modifiche fosse possibile scorgere un nuovo modo di pensare al magistrato[14] – inquirente e giudicante – come ad un soggetto processuale più performante – e quindi più efficiente – partendo dal presupposto che dalle indagini preliminari all’ultimo grado di giudizio i tempi del processo si sono protratti per ragioni non solo extraprocessuali ed organizzative. Questo rilievo trova in effetti riscontro[15] nelle pieghe del disegno riformatore, da quelle che riguardano la fase investigativa a quelle che consentono di approdare alla comminatoria di improcedibilità dell’azione per mancato rispetto di tempi prestabiliti (art. 344 bis c.p.p.).

Dalla disamina di entrambi i momenti, emergeva un netto ridimensionamento dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Quanto alla fase genetica del procedimento, la precisazione dei presupposti della notitia criminis al fine di evitare disparità di trattamento e prassi devianti sulle iscrizioni si inscriveva nell’ottica di valorizzazione della fattispecie (Tatbestand) come filtro sui fatti penalmente rilevanti. Per ciò che concerne invece la fase genetica del processo, l’introduzione della nuova regola di valutazione nella fase delle indagini preliminari (nell’udienza preliminare e nell’udienza predibattimentale) sollevava dubbi in ordine alla compatibilità con il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., non potendo sottovalutarsi come le ragionevoli previsioni di condanna finiscano per sortire un temperamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale.  Il radicale cambio di prospettiva della regola di valutazione introdotta dal D. Lgs. 150/2022 all’art. 408 c.p.p. rilasciava in particolare un evidente bilanciamento tra il criterio dell’efficienza processuale e il principio di esercizio obbligatorio dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., che rispondeva, sotto la previgente disciplina, alla logica dell’in dubio pro actionem. La nuova regola tende in altri termini a mitigare il principio di obbligatorietà, con lo scopo specifico di renderlo maggiormente effettivo e sostenibile, pur nel rispetto di quelli che sono i valori centrali che esso tende a proteggere.

La separazione delle carriere – a prescindere dal merito – finisce quindi con l’incidere poco sulla dimensione effettiva del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, che a seguito della riforma Cartabia possiamo definire ormai “temperato”.

Si pensi, ancora, all’articolo 3 del Capo I della legge n. 71 del 17.6.2022 (riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario), che attiene, tra le altre: alla valutazione di professionalità dei magistrati e contiene principi e criteri direttivi in merito ai criteri di valutazione della professionalità, tra i quali sono inseriti il “rispetto dei programmi annuali di gestione dei procedimenti e l’esito degli affari nelle successive fasi del giudizio”. A seguito di tale modifica la valutazione della capacità del magistrato risente  “dell’esito degli affari nelle successive fasi o gradi del procedimento o del giudizio”, essendo previsto – art. 3 lett. g della legge – un flusso informativo che garantisca la conoscenza, da parte del Consiglio Giudiziario, delle “gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento” e, in ogni caso, l’estensione del campionamento ai provvedimenti emessi nella fase successiva del procedimento o del giudizio.

Quanto precede consente di ritenere scarsamente problematico l’effetto della separazione delle carriere sull’obbligatorietà dell’azione penale, e di auspicare anche in tal senso un cambio di cultura del magistrato, poiché nessun processo riformatore potrà dare risultati effettivi senza un riscatto culturale della magistratura[16], come ribadito in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, dove è stata stigmatizzata la “smisurata giuria pubblica” che sovente altera mediaticamente la valutazione dell’attività dei magistrati[17].

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[1] Prima che il Governo licenziasse il testo finale del disegno di legge, A. Nappi (1), Separate i separati! Unite gli indisciplinati! “Facite Ammuina”?, in Sistema Penale, 9.5.2014, pag. 5, aveva rilevato come «in contraddizione con la proposta di unificazione del procedimento disciplinare, avremo così un consiglio superiore dei pubblici ministeri e un consiglio superiore dei giudici che si aggiungeranno ai separati consigli di presidenza dei magistrati amministrativi e dei magistrati contabili: quattro pseudo consigli superiori, salva per di più la possibilità che si proponga coerentemente di istituire un quinto consiglio per i pubblici ministeri contabili. In questo contesto la proposta di unificazione dei giudici disciplinari potrebbe anche rappresentare un tentativo residuale di recupero di razionalità, se non verrà utilizzata per ridurre l’indipendenza non solo dei pubblici ministeri ma anche dei giudici ordinari: come avverrebbe se la unificata Alta corte risultasse composta anche da magistrati amministrativi non pienamente garantiti sul piano dell’indipendenza…».

[2] Prima dell’approvazione del testo definitivo A. Nappi (1), op. cit. pag. 3, aveva giudicato con favore la proposta di destinare l’Alta corte a tutti i giudizi disciplinari dei magistrati, non solo ordinari ma anche amministrativi, anche al fine di compensare gli effetti della creazione di due Consigli Superiori, soluzione però non recepita dal Governo.

[3] N. Rossi, Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri? in Sistema Penale, 16.11.2023, pagg. 1-21.

[4] A. Nappi (1), Separate i separati! Unite gli indisciplinati! “Facite Ammuina”? in Sistema Penale, 9.5.2014, pagg. 1-7.

[5] 36° Congresso ANM: il testo della mozione finale, in Sistema Penale, 13.5.2024, pagg. 1-8.

[6] www.camerepenali.it.

[7] In www.associazionemagistrati.it

[8] Cfr. A. Madeo, La “resa” del Tatbestand nella genesi del procedimento e del processo rilasciati dalla Riforma Cartabia, Tesi di dottorato, XXXVI° Ciclo, Università degli Studi della Tuscia, 2024, pag. 23 e ss.

[9] A. De Caro (1) – Riflessioni sulle recenti modifiche della fase investigativa e della regola di giudizio: un percorso complesso tra criticità e nuove prospettive, in Archivio Penale n. 3/2022, pag. 1 – rileva «un percorso oggettivamente ondivago, caratterizzato dalla contemporanea esistenza di spinte garantiste e di rigurgiti inquisitori».

[10] Secondo F. Di Vizio – Il nuovo regime delle iscrizioni delle notizie di reato al tempo dell’inutilità dei processi senza condanna, in DisCrimen, 12.11.2022, pag. 4 – «è indubbio che la riforma ha inferto una spinta efficientistica – un obiettivo di risultato verrebbe da sintetizzare – che finisce per condizionare ogni porzione della vicenda procedimentale e processuale…».

[11] così M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia. Profili processuali, in Sistema Penale, 2.11.2022, pag. 37 e ss.

[12] così A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la Legge 27.9.2021 n. 134, in Questione Giustizia, 20.12.2021, pag. 12.

[13] cfr. G. Ruta, Verso una nuova istruzione formale? Il ruolo del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, in Questione Giustizia, 20.1.2022.; M. Gialuz- J. Della Torre, op. cit., pagg. 233 e ss.

[14] Secondo E. De Franco – La riforma c.d. “Cartabia” in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini, in Questione Giustizia, 19.12.2022 – la riforma Cartabia rischiava di rappresentare una «…pericolosa eterogenesi dei fini dove gli scopi diventano mezzi e i mezzi diventano scopi, avendo il legislatore stravolto il campo dei rapporti tra giudice e pubblico ministero, facendo – in relazione ad alcuni degli istituti introdotti, su tutti l’iscrizione coatta prevista dal nuovo art. 335 ter c.p. e il nuovo ambito applicativo dell’art. 408 c.p.p. – del giudice un pubblico ministero e viceversa. Il tutto è avvenuto in nome di principi di efficienza aziendalistica e in sacrificio del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale…».

[15] G. Spangher (1), L’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, in www.giustiziainsieme.it, 9.2.2022.

[16] A. Nappi (3), I “carichi esigibili” tra prospettiva istituzionale e allure sindacale, in Questione Giustizia, 3.5.2022.

  • [17] Salvato L., Intervento del procuratore generale della corte suprema di cassazione nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’ anno 2023, www.cortedicassazione.it., pag. 5.

 

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