di Augusto Zaccariello
[vc_row] [vc_column width=”5/6″]Nel precedente numero: 1. Radicalizzazione e proselitismo, 2. La radicalizzazione violenta.
In questo numero: 3. Profiling dell’estremista violento, 4. Strumenti preventivi ed investigativi, 5. Osservazione del fenomeno nel contesto penitenziario, 6. Libertà di culto, prevenzione e repressione in carcere.
3. Profiling dell’estremista violento
Un elemento caratterizzante l’attuale generazione di terroristi è l’elevata tecnologia. Il cyberspazio rappresenta il nuovo modo per diffondere non solo l’ideologia ma anche il nuovo stile di comunicazione per fornire visibilità alle azioni, fare propaganda e proselitismo. Veicolo per rendere facilmente fruibili testi dottrinali, comunicati, manuali, reclutamento addestramento virtuale.
In tale contesto, si è cercato di individuare tratti comuni di profiling del terrorista islamico, per realizzare un identikit basato su dati come l’età, scolarizzazione, variabili fisiche, psicologiche, comportamentali, lingua. In tal senso, se pur non esaurienti, sono stati individuati alcuni aspetti ricorrenti ed elaborate due principali tipologie di estremisti violenti.
I categoria. In molti casi si tratterebbe di uomini di età compresa tra i 20 e 30 anni, dall’aspetto comune e tendenzialmente “europeo” in grado di non attirare l’attenzione, che hanno evidenziato un livello di cultura medio-basso, una famiglia solida ed unita e la tendenza al fanatismo religioso. In Europa, lo scenario di riferimento è quello di una popolazione musulmana perlopiù disoccupata, o comunque non ben inserita nella classe sociale media, che si rivolge all’islam per trovare una propria identità. In tale contesto, emergono i cd homegrown, ovvero i figli di immigrati nati e cresciuti in occidente, che si radicalizzano prevalentemente in seguito ai condizionamenti dei corregionali attestati su posizione estremiste. Si tratta generalmente di soggetti resi vulnerabili da situazioni di disagio socio, economico o ambientale, che scelgono l’opzione violenta. Non mancano, tuttavia, quelle manifestazioni autoctone del terrorismo Jihadista non importate degli immigrati di prima generazione, il cui processo di radicalizzazione è avvenuto in occidente. A questa prima fisionomia sono riconducibili i terroristi della tipologia della strage di Parigi –13 novembre 2015.
II categoria. Appartengono all’altra tipologia i giovani musulmani di buona famiglia, soggetti apparentemente equilibrati e integrati che frequentano le scuole migliori del paese di origine o all’estero. Poiché culturalmente preparati risultano, se possibile, ancora più pericolosi, in quanto astrattamente in grado di pianificare e realizzare più affinate strategie. A questa fisionomia sono riconducibili, ad esempio, i terroristi della tipologia della Strage di Dacca – 1 luglio 2016. Più in generale, già con gli efferati attentati dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle di NY, a Madrid del 2004, Londra del 2005, fino ad arrivare a quelli più recenti, è stata evidenziata l’abilità con cui la rete terroristica ha modulato il proprio schema organizzativo, non radicato in un territorio delimitato, frammentando la propria influenza in aree geografiche lontane tra loro e dimostrando la propria potenzialità offensiva in vari sanguinosi attentati perpetrati in ogni parte del mondo, facendo sentire forte la necessità di individuare contromisure di contrasto e prevenzione sempre più efficaci a livello nazionale e internazionale. L’esigenza di fronteggiare la virulenza terroristica, impostasi per la drammaticità dell’aggressione perpetrata attraverso l’attuazione di continui e sanguinosi attentati senza precedenti, per modalità, tipologia di obiettivi e numero di vittime, ha indotto gli organismi legislativi a rivisitare gli strumenti giuridici al fine di creare un più efficace sistema normativo che disponga di istituti ad hoc.
4. Strumenti preventivi ed investigativi
E così, dall’11 settembre in poi, in tutto il panorama internazionale, vi è stata un’impennata della produzione legislativa, volta ad adattare la normativa penale, oltre che a predisporre strumenti preventivi ed investigativi, per reprimere il fenomeno in atto.
Anche l’azione dell’Unione europea si è intensificata e, seppur con i molti limiti in ragione dell’autonomia dei singoli sistemi nazionali, si è attivata una cooperazione tra le forze di polizia e le autorità doganali, sia direttamente che tramite l’EUROPOL (European Police Office, agenzia anticrimine europea).
In Italia, il quadro normativo di riferimento è stato ereditato dalla “legislazione di emergenza” emanata negli anni ’70 per contrastare il fenomeno del terrorismo interno. L’impianto normativo, con il quale il nostro Paese ha affrontato gli anni di piombo, era fondato su alcuni pilastri fondamentali, ovvero: art 270 c.p. (associazione eversiva); art 270bis c.p. (associazione con finalità di terrorismo); art. 280 c.p. (attentato con finalità terroristiche); art. 289bis c.p. (sequestro di persona a scopo terroristico); art. 306 c.p. (banda armata).
Su questa struttura giuridica, alla luce della nuova minaccia perpetrata dal terrorismo internazionale, il legislatore è dovuto intervenire, introducendo nuovi strumenti di contrasto giudiziario, prevenzione e repressione che fossero adeguati al mutato scenario di criminalità. Accanto a strumenti investigativi dotati di maggiore snellezza, sono stati aggiunti alla previgente normativa contenuta nel Capo I, Titolo I del codice penale (dei delitti contro la personalità internazionale dello Stato) le successive novelle, con le riforme del 2001, 2005, 2015.
La norma di maggiore rilievo e novità è quella che ha introdotto il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale – art 270ter c.p., logicamente ed ermeneuticamente connessa agli art.270cp (associazione eversiva), e all’ art 270bis c.p., come novellato a seguito delle modifiche intervenute con la legge 438/2001 e 155/2005, (associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico). Tra gli strumenti preventivi ed investigativi rientrano invece le modifiche, introdotte con il decreto legge 374/2001 e successiva legge di conversione 438/2001, agli istituti dell’attività sotto copertura, delle intercettazioni preventive e della sorveglianza speciale, volte ad ampliare l’ambito di applicazione degli stessi e rendere più snelle, efficaci e svincolate da un’eccessiva burocratizzazione le procedure.
In un’ottica di prevenzione, è stata inoltre disciplinata la Collaborazione tra gli organismi di intelligence – DIS (dipartimento delle informazioni per la sicurezza), AISE ( agenzia informazioni e sicurezza Estera ), AISI ( agenzia informazioni e sicurezza interna) – e le Forze Armate e di Polizia, le pubbliche amministrazioni, i soggetti che svolgono servizi di pubblica utilità, nonché i sevizi collegati esteri. La legge 124/2007 ha potenziato significativamente i rapporti di collaborazione tra le istituzioni prevedendo in particolare che: le forze armate e di polizia, le amministrazioni dello Stato e gli enti di ricerca anche privati forniscono informazioni, analisi e rapporti al DIS che per tale scopo promuove e garantisce lo scambio informativo, anche con riunioni periodiche; le forze armate e di polizia, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza assicurano la più ampia collaborazione al personale dell’AISE e AISI; le forze di polizia a richiesta del DIS, possono trasmettere informazioni relative a investigazioni di polizia giudiziaria, previo nulla osta dell’AG in caso di sussistenza del segreto di indagine. L’autorità giudiziaria può inviare di sua iniziativa atti e informazioni ritenuti di interesse per l’attività del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica.
Più in generale tutte le pubbliche amministrazioni ed i soggetti erogatori di pubbliche utilità assicurano l’accesso del DIS, dell’AISE e dell’AISI ai propri archivi informatici. Per combattere il terrorismo si è quindi focalizzata l’attenzione sia sull’attività preventiva e repressiva di polizia che sull’intelligence che può avvalersi di diverse fonti, umane, elettromagnetiche ed aperte (documenti, studi, stampa, internet).
In tale contesto, assume notevole rilevanza l’attività del Comitato di Analisi e Strategica Antiterrorismo, a cui partecipa l’Amministrazione penitenziaria con il proprio contributo in materia di contrasto/repressione del fenomeno di radicalizzazione in carcere.
Quando si parla di emergenza delle tendenze alla radicalizzazione negli istituti, è anzitutto necessario distinguere nell’ambito della popolazione detenuta i seguenti gruppi:
- detenuti per reati di terrorismo o estremismo di natura politico-religiosa;
- detenuti per reati non estremisti, come ad esempio reati minori, violenti e non, ma che hanno già legami con gli ambienti estremisti;
- detenuti condannati per reati minori, reati violenti e altri reati.
Le prime due categorie presentano già legami con l’estremismo, la radicalizzazione violenta o atti di terrorismo. Pertanto, possono costituire reclutatori di adepti negli istituti penitenziari.
È stata infatti rilevata un’insidiosa opera di indottrinamento e reclutamento svolta dai veterani, nei confronti di connazionali detenuti per reati minori (cfr. Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza – DIS 2008). In realtà, per i detenuti ristretti per reati legati al terrorismo internazionale è prevista, oltre a un attento monitoraggio, la rigorosa separazione, in circuito penitenziario all’uopo dedicato, dalla restante popolazione detenuta, come strumento di prevenzione volto a ridurre i rischi di proselitismo.
Questa misura risulta conforme alle linee direttrici comunitarie sulle misure da applicare nelle carceri europee per prevenire la radicalizzazione e l’estremismo violento, ove si sottolinea che l’isolamento dei detenuti cui sia accertata l’adesione all’estremismo violento o l’avvenuto reclutamento in organizzazioni terroristiche dagli altri detenuti rappresenta una possibile misura per prevenire che la radicalizzazione terroristica venga imposta ad altri ristretti per contenere la radicalizzazione nelle carceri. (cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2015 sulla prevenzione della radicalizzazione e del reclutamento dei cittadini europei da parte di organizzazioni terroristiche – II.Prevenire l’estremismo violento e la radicalizzazione terroristica nelle carceri ).
È opportuno sottolineare dire che, il detenuto per reati di terrorismo, all’interno del sistema penitenziario ha una pericolosità più contenuta, in virtù della temporanea situazione di limitazione della libertà personale, seppur comunque sia massima l’attenzione e costante il monitoraggio al fine di evitare tentativi di cospirazioni e guida di atti terroristici all’esterno.
Nei confronti della categoria di detenuti per reati non estremisti che hanno già legami con gli ambienti estremisti, è indispensabile adottare, da parte dei servizi penitenziari, idonee misure al fine di impedire che persone sotto la loro custodia siano radicalizzate al punto da accettare opinioni di estremismo violento che possano portare ad atti di terrorismo, ed anche al fine di individuare, gestire e reinserire i soggetti già radicalizzati. (cfr. anche Le linee guida per i servizi penitenziari e di probation sulla radicalizzazione e l’estremismo violento, diffuse dal Consiglio d’Europa ed adottate, il 2 marzo 2016, dal Comitato dei Ministri, nel corso della 1249° riunione dei Delegati dei Ministri).
5. Osservazione del fenomeno nel contesto penitenziario
I recenti accadimenti di natura terroristica rivelano che gli istituti penitenziari possono costituire un terreno fertile, per il processo di proselitismo e radicalizzazione violenta dei detenuti.
Come da più parti evidenziato le carceri esercitano un doppio stato di coazione: l’isolamento del detenuto dalla società, dagli affetti familiari e degli amici, nonché l’imposizione di regime strettamente controllato e regolamentato. La sofferenza per la privazione della libertà, l’emarginazione sociale, l’insoddisfazione nei confronti del sistema giuridico e/o carcerario, a cui può aggiungersi la pressione o violenza (fisica psicologica) del gruppo, l’influenza di soggetti radicalizzati, sono tutti elementi che possono acuire il sentimento di profondo isolamento e di emarginazione dei soggetti più deboli, generando un desiderio di appartenenza, di identità di gruppo, di tutela e guida religiosa, che possono costituire i prodromi di una radicalizzazione. L’impatto con il carcere, unito al sentimento di fallimento esistenziale e la relativa mortificazione, può determinare, in alcuni soggetti, un ritorno alla pratica religiosa o una conversione ad un altro credo. In vari paesi europei si è assistito, infatti, ad un aumento delle conversioni di individui fragili, che cercano nell’islam una tregua da un passato inquieto.
In questo panorama, ciò che bisogna prevenire e contrastare, pur nel rispetto della libertà di religione, è il rischio della radicalizzazione dei criminali comuni, i quali pur non avendo manifestato particolare inclinazione religiosa al momento dell’ingresso nel penitenziario, sono gradualmente trasformati in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati, arrivando anche a credere che azioni come la partecipazione ad un attentato suicida possano offrire un’opportunità di salvezza e perdono.
Alla luce di quanto sopra, unitamente all’inevitabile interesse mondiale per il fenomeno del terrorismo islamico ed all’elevato numero di detenuti di origine e/o fede islamica ristretti negli istituti di pena Italiani, sono state poste in essere dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), attività finalizzata alla prevenzione del reclutamento, tra i detenuti per reati comuni, di militanti delle organizzazioni terroristiche gravitanti nell’area dell’integralismo islamico.
In particolare, l’innalzamento della minaccia terroristica di matrice Jihadista ha indotto il D.A.P. ad adottare, nel corso degli anni, una serie di misure di controllo di carattere preventivo sempre più affinate, volte a contrastare la fenomenologia fondamentalista.I risultati di tali attività vengono condivise, in un’ottica di cooperazione, con il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo (C.A.S.A.) e con la Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.
Il Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo è un tavolo permanente, presieduto dal Direttore Centrale della Polizia di Prevenzione, nel cui ambito vengono condivise e valutate le informazioni sulla minaccia terroristica interna ed internazionale. Vi prendono parte le forze di polizia a competenza generale Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, le Agenzie di intelligence, AISE ed AISI, e, per i contributi specialistici, la Guardia di Finanza ed il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
La duttilità e la snellezza della metodologia di lavoro, unitamente alla costante attività di consultazione e raccordo tra le diverse componenti, consentono al Comitato un’approfondita e tempestiva valutazione delle notizie, finalizzata ad attivare le necessarie misure di prevenzione e contrasto.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, per le predette attività e per quelle connesse al fenomeno del rischio di radicalizzazione violenta in carcere, si avvale stabilmente del Nucleo Investigativo Centrale (N.I.C.). Il Nucleo Investigativo Centrale del Corpo di Polizia penitenziaria, convoglia, analizza ed elabora quotidianamente i dati forniti dalle articolazioni territoriali, facendoli confluire in appositi database attraverso l’aggregazione delle notizie acquisite. Nello specifico, l’attività di analisi e studio del fenomeno del radicalismo e proselitismo condotta dal Nucleo Investigativo Centrale è articolata su tre diversi livelli di osservazione assegnati in base al grado del rischio di radicalizzazione e alla personalità del soggetto.
Il sistema di raccolta delle informazioni provenienti dal contesto penitenziario è fondamentalmente basato sull’osservazione empirica e si realizza con l’acquisizione di tutti i dati inerenti la vita intramuraria e i contatti con l’esterno (dalla routine quotidiana alle relazioni comportamentali ed eventuali sanzioni disciplinari, dai flussi di corrispondenza ai colloqui visivi e telefonici, dalle somme di denaro ai pacchi in entrata e in uscita dal penitenziario, ecc).
Trattasi di un’attività fondata sulla conoscenza del detenuto che avviene anche attingendo ad informazioni legittimamente detenute dall’amministrazione penitenziaria che, debitamente aggregate, possono essere utilizzate al fine di svolgere una puntuale attività di prevenzione.
6. Libertà di culto, prevenzione e repressione in carcere
Se, come abbiamo evidenziato, è vero che le carceri sono luoghi in cui si può strutturare una visione estremista dell’Islam con capacità di proselitismo, è altrettanto vero che l’esigenza di reprimere il fenomeno della radicalizzazione in prigione non può svilire i diritti connessi alla libertà di culto.
La libertà di culto, diritto costituzionalmente garantito, è specificatamente riconosciuta e disciplinata dalla nostra legge penitenziaria (art. 26 legge sull’Ordinamento Penitenziario 354/1975 e art 58 del Regolamento Penitenziario DPR 230/2000). In particolare, è prevista per i detenuti la libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto, purché non si esprima in comportamenti molesti per la comunità. Inoltre, poiché nelle strutture penitenziarie è assicurata solo la presenza del cappellano e la celebrazione di riti del culto cattolico, gli appartenenti a religioni diverse dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su richiesta, dei ministri del proprio culto e celebrarne i riti.
La partecipazione ai riti da parte dei detenuti deve essere compatibile con l’esigenza di ordine e sicurezza dell’istituto. È inoltre consentito, esporre immagini e simboli della propria confessione nella propria camera se individuale, ovvero nel proprio spazio di pertinenza nelle camere multiple. Bisogna tener presente che, contemperare le diverse esigenze, libertà di culto religioso e repressione della radicalizzazione violenta, è fondamentale per evitare un effetto boomerang. Riducendo l’area dei diritti si corre il rischio di favorire il proselitismo, agevolando la visione di un Occidente nemico dell’Islam.
È opinione condivisa a livello internazionale che il corretto insegnamento e la pratica religiosa possono annoverarsi tra le misure appropriate di lotta contro la radicalizzazione, in quanto costituiscono sostegno dei detenuti nello sviluppo della loro personalità, spesso fragile sul piano culturale, familiare, economico e a rischio di finire vittima della propaganda jihadista.
In proposito, si legge nel manuale sulla radicalizzazione violenta, Riconoscimento del fenomeno da parte di gruppi professionali coinvolti e risposte a tale fenomeno – Commissione europea, Direzione Generale della Giustizia, Libertà, Sicurezza, 2008 – che presumendo che i detenuti possano essere attratti all’estremismo violento in carcere, bisogna anche supporre che gli istituti penitenziari possono essere il luogo ideale per apprendere di più sulla democrazia e la cittadinanza attiva. Uno degli scopi della detenzione è la riabilitazione, e in una fase successiva il reinserimento dei detenuti nella società. ©
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Prima di trattare l’argomento, mi soffermo brevemente sull’ accezione del sostantivo “tecnica” considerato che, per quanto riguarda l’investigazione, l’appropriatezza del termine “scienza investigativa”, resta ancora una dirimenda questione aperta, nella ricerca filosofica e nel dibattito degli esperti accademici, per individuare la demarcazione di cosa può o non può rientrare in tale ultima definizione.
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