di Claudio Cazzolla
[vc_row]Corte di Cassazione, Sezione II Penale, sentenza n. 17158 del 28 marzo 2018 e depositata il 17 aprile 2018
Con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati, assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del contenuto delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo dei colloqui intercettati; in questo caso, ben potendo il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni. Alla stregua delle indicate linee interpretative, dunque, le censure del ricorrente si risolvono in una richiesta di incursione nel meritum causae, non consentito – come tale – in sede di legittimità.
La sentenza in oggetto, emessa dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione, con presidente Piercamillo Davigo, affronta i limiti del controllo di legittimità con particolare riferimento ad una decisione che si fonda sui risultati delle intercettazioni telefoniche.
In generale può affermarsi che il controllo di legittimità svolto dalla Suprema Corte si sostanzia in due momenti cruciali: la verifica della tenuta logica della motivazione e, la verifica della correttezza giuridica delle argomentazioni ivi utilizzate.
Dopo un rapido riepilogo della vicenda, si tenterà un cenno sulle principali forme di inferenza che governano il ragionamento logico al fine di chiarire i meccanismi del controllo esercitato in sede di legittimità.
Nella specie, è accaduto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Caltanissetta disponeva l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nei confronti di L.G. per associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.), accusato di aver offerto “ogni utile supporto per favorire l’infiltrazione dell’associazione nel tessuto economico di attività con le quali riciclare i proventi illeciti” ed inoltre, riguardo ad un altro capo d’accusa, per la detenzione di un’arma comune da sparo, reato aggravato dall’art. 7 D.L. 152/1991, convertito nella Legge 203/1991 (“Provvedimenti urgenti in materia di criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”).
L’indagato proponeva istanza di riesame avverso tale provvedimento, contestando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Il Tribunale del riesame di Caltanissetta, accoglieva l’istanza con riguardo al delitto di cui alla detenzione dell’arma da sparo, ritenendo i quadro indiziario, fondato su una sola conversazione intercettata, insufficiente a ritenere sussistente l’ipotesi di reato contestata e respingeva nel resto l’istanza proposta, confermando, l’ordinanza impugnata.
Contro l’ordinanza emessa in sede di riesame, l’indagato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. B) ed E), in relazione agli artt. 272 c.p.p. e 416 bis c.p.
Nello specifico, L.G. si doleva della ritenuta sussistenza del reato associativo pur avendo la difesa rappresentato la carenza del dato organizzativo dell’associazione, presupposto essenziale per ritenere sussistente la sua condotta partecipativa, la cui attività si sarebbe limitata a favorire non già l’associazione nel suo complesso, ma un singolo soggetto R.S., amico d’infanzia di L.G., per cui non era dimostrato l’inserimento del ricorrente nella compagine associativa contestata, posto che per giurisprudenza costante, le semplici frequentazioni per parentela, affetti, comune estrazione ambientale o sociale per amicizia, possono al più configurare motivi di sospetto ma, se non supportati da elementi di riscontro, non possono essere valorizzati quali prove nemmeno indirette o logiche.
La Suprema Corte giudica il ricorso manifestamente infondato, pertanto, lo dichiara inammissibile.
La motivazione chiarisce anzitutto i limiti di sindacabilità da parte della Corte di Cassazione dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame sulla libertà personale.
L’orientamento giurisprudenziale consolidato, al quale la Corte aderisce, non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame.
In proposito, la Corte sottolinea che il controllo di legittimità è, quindi, circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sez. 6, n. 2146/1995, Rv 20184; Sez. 2, n. 56/2011, Rv 251760; Sez. 2, n. 9212/2017, Rv 269438). Il controllo di legittimità, in particolare, non riguarda né la ricostruzione di fatti, né l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e concludenza dei dati probatori, per cui non sono consentite le censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze esaminate dal giudice di merito.
Nella fattispecie la Corte di legittimità, con riferimento alla ipotizzata associazione mafiosa e al ruolo rivestito dall’indagato, ha ritenuto che il provvedimento impugnato era dotato di logica coerenza e linearità argomentativa, che come tale, per le dette ragioni, si sottraeva a censure di puro diritto.
A sostegno della decisione, la Corte richiama le numerose conversazioni, anche ambientali, intercettate, spesso riportate per stralci, unitamente agli esiti di una complessa attività investigativa condotta attraverso servizi di controllo e osservazione (appostamenti, pedinamenti ecc.). Tutti elementi racchiusi in una motivazione che confuta la tesi del ricorrente alla stregua di considerazioni puntuali e coerenti sul piano logico e corrette da un punto di vista giuridico che degradano le critiche mosse dal ricorrente alla mera prospettazione di una diversa chiave di lettura del materiale probatorio non idonea ad inficiare il ragionamento del Tribunale. Inidoneità che si aggrava se si tiene conto che, in sede cautelare, vigono criteri valutativi più fluidi ed elastici rispetto al processo ordinario.
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