di Alessio Sarais
Fin dall’inizio, si applicano nello SCV il codice penale ed il codice di procedura penale vigenti in Italia nel 1929, vale a dire in ambito sostanziale il codice cd. Zanardelli, promulgato nel 1899, e per quanto concerne il rito il codice di procedura del 1913. Il legislatore vaticano, nell’esercizio della sua sovranità, è peraltro ripetutamente intervenuto sulla disciplina penale originariamente mutuata dal sistema italiano, apportando nel tempo una serie di modifiche, fino alle recenti riforme in tema di illeciti finanziari, con la legge 30 dicembre 2010, n. CXXVII e le successive integrazioni e modificazioni. Con Papa Francesco il processo riformatore è proseguito ed in materia di trasparenza, vigilanza e informazione finanziaria è stata emanata la legge 8 ottobre 2013, n. XVIII.
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1 – Introduzione
Lo Stato della Città del Vaticano (SCV) nasce con il Trattato del Laterano sottoscritto l’11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l’Italia. Pur con le sue evidenti peculiarità, determinate dall’essere struttura servente della Santa Sede a garanzia del libero esercizio del munus petrino, la Città del Vaticano presenta le caratteristiche proprie dello Stato, con un territorio, un popolo e un pieno esercizio della sovranità attraverso un proprio ordinamento giuridico indipendente e originario. Per questo, fin da subito, la legge 7 giugno 1929, n. II, ha delineato il sistema delle fonti normative applicabili nello SCV. L’impianto ordinamentale è oggi sostanzialmente confermato dalla nuova legge sulle fonti del diritto vaticano, 1° ottobre 2008, n. LXXI.
Il sistema giuridico vaticano si caratterizza per una pluralità di fonti di diversa provenienza, tutte applicabili nello SCV, secondo l’architettura disegnata dagli artt. 1 e 3 della citata legge. Il diritto canonico è considerato “la prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo” del sistema giuridico vaticano. Ci sono poi le fonti vaticane “proprie”, rappresentate dalle leggi specificamente promulgate dal legislatore vaticano. Entrano inoltre nel sistema le norme di diritto internazionale, sia generale che pattizio, e le leggi italiane: queste ultime tuttavia hanno nello SCV un’applicazione suppletiva e residuale, entrano cioè in gioco solo ove manchi una specifica regolamentazione da parte di altre fonti, e solo previo recepimento da parte della competente autorità vaticana.
In materia penale, il legislatore vaticano ha fatto espresso rinvio ai codici italiani, recependoli tra le proprie fonti del diritto. L’art. 7 della vigente legge n. LXXI del 2008 dispone che “si applica nello SCV il codice penale italiano recepito con la legge 7 giugno 1929, n. II, come modificato ed integrato dalle leggi vaticane”. Allo stesso modo, per il sistema processuale penale, la legge sulle fonti rimanda al “codice di procedura penale italiano recepito con legge 7 giugno 1929, n. II, come modificato ed integrato dalle leggi vaticane” (art. 8, legge n. LXXI del 2008).
Fin dall’inizio, si applicano dunque nello SCV il codice penale ed il codice di procedura penale vigenti in Italia nel 1929, vale a dire in ambito sostanziale il codice cd. Zanardelli, promulgato nel 1899, e per quanto concerne il rito il codice di procedura del 1913.
Il legislatore vaticano, nell’esercizio della sua sovranità, è peraltro ripetutamente intervenuto sulla disciplina penale originariamente mutuata dal sistema italiano, apportando nel tempo una serie di modifiche, fino alle recenti riforme in tema di illeciti finanziari, con la legge 30 dicembre 2010, n. CXXVII e le successive integrazioni e modificazioni. Con Papa Francesco il processo riformatore è proseguito ed in materia di trasparenza, vigilanza e informazione finanziaria è stata emanata la legge 8 ottobre 2013, n. XVIII. Un intervento di portata più ampia è stato quindi realizzato con le leggi 11 luglio 2013, n. VIII (Norme complementari in materia penale) e n. IX (Norme recanti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale), a cui fa seguito la legge n. X di pari data relativa alla disciplina degli illeciti amministrativi, già oggetto di commento su questa Rivista.
Le modifiche introdotte sono tese non solo ad intervenire sulla regolamentazione di alcuni reati, peraltro particolarmente gravi, o a configurare semplicemente nuove fattispecie incriminatrici, quanto piuttosto ad apportare una serie di riforme in termini più complessivi dell’intero ordinamento penale, per adeguarlo alle sempre crescenti esigenze di prevenzione e contrasto della criminalità, specie per quanto riguarda gli illeciti finanziari.
2 – Il principio di legalità e i suoi corollari
Nell’ambito del sistema ordinamentale dello SCV, per come fin qui sommariamente delineato, è interessante cogliere alcune suggestioni su come vengano concretamente declinati in esso alcuni dei principi propri di qualsiasi sistema penale.
Il primo di questi è certamente il principio di legalità. Come noto, esso nasce dal pensiero illuminista volto a vincolare l’esercizio di ogni potere dello Stato alla legge, a tutela dei diritti di libertà del cittadino nei confronti del sovrano. Ma nella realtà giuridica dello SCV una tale esigenza va considerata in termini peculiari, dal momento che anche il sovrano, pur assommando in sé “la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario” (art. 1, comma 1, legge fondamentale, 26 novembre 2000) non è mai a legibus solutus, in quanto comunque tenuto all’osservanza di un diritto superiore, a lui stesso indisponibile. Non è dunque in sé sufficiente per la garanzia dei diritti di libertà delle persone un mero criterio formalistico di rispetto della norma legge come positivamente (e contingentemente) posta dal legislatore storico, quanto – in termini ben più pregnanti – è richiesta la coerenza sistematica della legislazione con un ordine di giustizia naturale, in cui viene garantito il pieno sviluppo della persona umana e l’estrinsecazione dei suoi diritti fondamentali innati.
Solo alla luce di questa indispensabile premessa, si può meglio comprendere come nello SCV possa trovare applicazione il principio di legalità e i corollari che ne derivano, quali la riserva di legge, la tassatività della fattispecie, l’irretroattività ed il divieto di analogia.
Il sistema vaticano accoglie in sé il principio nullum crimen sine lege, contenuto nel codice penale italiano del 1889 recepito nello SCV: all’art. 1, comma 1, è infatti previsto che “nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”. La copertura legislativa deve riguardare tanto la previsione del fatto di reato che l’indicazione della pena (nulla poena sine lege).
Il concetto di riserva rinvia immediatamente alla legge in senso formale, ossia all’atto normativo previsto dall’ordinamento con questo nomen iuris, e agli atti ad essa equiparati nella gerarchia delle fonti. Nel sistema ordinamentale vaticano il potere legislativo, che fa capo al Papa, viene ordinariamente esercitato da una speciale Commissione cardinalizia (cfr. art. 3, legge fondamentale). Tuttavia, dal momento che la potestà legislativa promana direttamente al sovrano, sono sempre “salvi i casi che il Sommo Pontefice intenda riservare a se stesso o ad altre istanze” (ibid.). Per questo le leggi vaticane possono essere promulgare tanto dalla Pontificia commissione cardinalizia (procedura ordinaria), quanto “dal Sommo Pontefice (…) o da altre autorità alle quali Egli abbia conferito l’esercizio del potere legislativo” (cfr. art. 1, comma 2, legge 1° ottobre 2008, n. LXXI). È quindi astrattamente configurabile una procedura legislativa diversa da quella ordinaria, ma non del tutto extra ordinem, in quanto pur sempre prevista dall’ordinamento attraverso la citata norma della legge sulle fonti del diritto: in questo caso non è la Commissione cardinalizia “legislativa”, ma il Pontefice stesso o altra autorità da lui delegata ad emanare un atto normativo con il nomen legis, che, come tale, potrebbe contenere anche una statuizione penale. La garanzia del rispetto dei diritti della persona non ne subisce una lesione, in quanto il reato viene pur sempre previsto da una fonte legale, sebbene promulgata con una procedura diversa da quella ordinaria.
Diverso è il caso dei decreti, che, sebbene fonti differenti rispetto alla legge, sono dall’ordinamento ad essa equiparati in quanto a forza ed efficacia giuridica. Da un punto di vista concreto infatti, nessun sistema giuridico è in grado di riflettere perfettamente la completa separazione dei poteri invocata da Montesquieu, mentre si rende invece spesso opportuna una produzione normativa da parte del potere governativo, specie per fronteggiare adeguatamente situazione di necessità e urgenza. Così è ad esempio per l’ordinamento italiano, secondo le previsioni dell’art. 77 della costituzione. Analogo discorso vale anche per l’ordinamento giuridico vaticano, ove il Presidente del Governatorato, nella sua qualità di organo di vertice nell’esercizio della potestà amministrativa (cfr. art. 2, legge 16 luglio 2002, n. CCCLXXXIV), “in casi di urgente necessità, può emanare disposizioni aventi forza di legge, le quali tuttavia perdono efficacia se non sono confermate dalla Commissione entro novanta giorni” (art. 7, comma 2, legge fondamentale). In virtù di questa loro espressa “forza di legge”, anche i decreti possono legittimamente contenere norme penali.
Riguardo alle leggi e agli atti equiparati, che possono eventualmente contenere norme penali, va rilevato come nel sistema giuridico vaticano non esiste un giudizio di “costituzionalità”, né una procedura volta a verificare la compatibilità di una legge rispetto ad una fonte sovraordinata. Lo SCV non ha infatti una costituzione nel senso tecnico del termine, e anche la legge che viene definita “fondamentale” è da ritenere tale in senso materiale (perché tratta dell’esercizio dei poteri da parte degli organi dello Stato) e non perché abbia una forza gerarchica in grado imporsi sulle altre leggi, le quali promanano tutte, in ultima istanza, dall’autorità sovrana del Sommo Pontefice. Come accennato, il parametro supremo di “legittimità” della norma vaticana, anche di quella penale, non può essere dato solo da una astratta e formalistica conformità ad una fonte superiore o al rigido rispetto di una procedura, quanto piuttosto dal suo contenuto concreto, che non può mai porsi in contrasto con i diritti naturali della persona, riconosciuti in quanto tali dall’ordine naturale, prima ancora che “codificati” o tutelati da qualsiasi norma positiva.
3 – L’art. 9 della legge n. LXXI del 2008
Nel trattare del principio di legalità e sufficiente determinatezza della fattispecie penale, merita di essere presa in esame la previsione dell’art. 9 della legge n. LXXI del 2008, secondo la quale “qualora manchi qualunque disposizione penale e tuttavia sia commesso un fatto che offenda i principi della religione o della morale, l’ordine pubblico o la sicurezza delle persone o delle cose, il giudice può richiamarsi ai principi generali della legislazione per comminare pene pecuniarie sino ad euro tremila, ovvero pene detentive sino a sei mesi, applicando, se del caso, le sanzioni alternative di cui alla legge 14 dicembre 1994, n. CCXXVII”. Potrebbe insorgere un qualche problema di contrasto con il principio di tassatività in materia penale, a voler leggere la norma come una sorta di criterio generale per colmare eventuali lacune in materia penale ed estendere la punibilità verso condotte non espressamente tipizzate dal legislatore: in questo senso potrebbe far propendere invero anche l’equivoca rubrica dell’articolo (“Poteri del giudice in materia penale”).
Tuttavia, un’interpretazione più sistematica della norma alla luce dei principi generali va certamente preferita. La legge penale infatti è sempre di stretta applicazione e non può mai essere dilatata dal giudice oltre i suoi confini legislativamente tipici. La norma in questione allora non va considerata come un generico criterio estensivo della punibilità in caso di lacuna legis, quanto piuttosto introduce essa stessa una nuova (tassativa e tipica) fattispecie incriminatrice, configurando come reato ogni “fatto che offenda i principi della religione o della morale, l’ordine pubblico o la sicurezza delle persone o delle cose”. In questo caso, per determinare in concreto la condotta penalmente rilevante già individuata in modo determinato dalla legge, si deve far riferimento ad elementi integrativi esterni, quali i concetti di morale, ordine e sicurezza pubblica, che risultano peraltro sempre previamente conoscibili, anche secondo la comune sensibilità. D’altronde questa tecnica di redazione normativa, che, pur nel rispetto del principio di tassatività e riserva di legge, rimanda ad un’etero-integrazione della norma, è presente anche in altre fattispecie penali, come ad esempio nel caso del reato di inadempimento dell’ordine dell’autorità, ove – per determinare in concreto la condotta penalmente rilevante – è necessario individuare il singolo e specifico ordine impartito e violato. Un altro esempio del genere si trova nella fattispecie di atti osceni, per la cui determinazione si rinvia al concetto di “comune sentimento del pudore”.
4- Il divieto di applicazione analogica della norma penale
Strettamente collegato al principio di legalità è pure il divieto di applicazione analogica della norma penale. Nell’ordinamento vaticano, il procedimento analogico è vietato in materia penale in quanto il codice limita la punibilità ad un “fatto che sia espressamente preveduto come reato”. Il principio è ben noto anche al diritto canonico, che è sempre parte integrante del sistema giuridico vaticano (cfr. can. 18 CIC).
Del principio di legalità è ulteriore corollario il principio di irretroattività in materia penale, che preclude la punibilità per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge che ne prevede l’incriminazione (nullum crimen sine praevia lege). Si ritiene infatti gravemente lesivo delle garanzie di libertà della persona consentire al legislatore di punire ex post una condotta che invece, al momento della sua commissione, non era penalmente perseguibile. Il principio di irretroattività è previsto dal diritto canonico in generale per tutte le leggi, salva la possibilità della legge stessa di disporre diversamente purché in termini espressi (can. 9 CIC). Ma evidentemente un tale esigenza è assai più stringente e non ammette eccezioni in ambito penale.
Il principio è chiaramente espresso all’art. 2 del codice penale. È dunque vietato incriminare nello SCV una persona per un fatto che, quando fu commesso, non era previsto dalla legge come reato. Se poi invece una legge successiva fa venire meno una precedente norma incriminatrice oppure ne attenua le conseguenze penali, va applicata la norma più favorevole al reo: quando infatti il legislatore ha compiuto una nuova valutazione del fatto e l’ha ritenuto non più meritevole di pena o meritevole di una pena inferiore, non sembra ragionevole che questa nuova valutazione non abbia effetti per chi ha commesso quello stesso fatto, sebbene precedentemente e sotto la vigenza di una legge più severa. Certo va considerato con attenzione da parte del giudice, in caso di successione di leggi penali nel tempo, se si tratti di abrogazione di disposizione incriminatrice preesistente o solo di riformulazione del relativo contenuto. Il principio di retroattività della norma penale in bonam partem si rinviene peraltro espressamente anche nella legislazione penale canonica (cfr. can. 1313 CIC).
Manca invece nell’ordinamento vaticano un criterio specifico che guidi l’applicazione in caso di norme temporanee, per cui è da ritenere che in questi casi debba procedersi secondo quanto previsto in termini generali. In questo senso, i decreti d’urgenza del Presidente del Governatorato hanno forza di legge e possono quindi astrattamente abrogare o mitigare una precedente norma penale: se però il decreto non viene confermato da una legge entro novanta giorni, ne cessano gli effetti e quindi esso per l’ordinamento, spirato il suo termine di vigenza, tamquam non esset. Per questo, in assenza di specifica norma sul punto, si ritiene che un’eventuale norma più favorevole al reo non possa trovare applicazione se i suoi effetti non sono stabilizzati nell’ordinamento attraverso una legge di conferma.
5 – Il rapporto con il diritto canonico
Come già evidenziato, ai sensi dell’art. 1 della legge n. LXXI del 2008, il diritto canonico è la prima fonte normativa ed il primo criterio interpretativo di tutte le norme vaticane, quindi anche di quelle penali. Da ciò ne discende che i principi che guidano il sistema penalistico vaticano ed i criteri ermeneutici delle singole norme devono – per legge – essere sempre considerati alla luce del diritto canonico, in primis del cd. diritto divino e dei principi generali dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Per questo nel tratteggiare qui sommariamente alcuni aspetti applicativi collegati al principio di legalità nel sistema penale vaticano si è voluto estendere il riferimento alle norme e ai principi canonici, che costituiscono il parametro necessario per una corretta interpretazione anche del diritto statuale. In questo senso, non solo gli specifici criteri interpretativi della legge vaticana sono quelli stabiliti dal codice di diritto canonico in caso di lacuna legis (cfr. cann. 16-19 CIC), ma – in termini di portata ben più vasta – gli stessi principi generali del sistema canonistico, a cominciare da quelli di diritto naturale indisponibili allo stesso legislatore, informano tutto l’ordinamento vaticano, compreso quello penale.
Una tale considerazione di sistema è valida per qualsiasi tipologia di norma applicabile nello SCV, a prescindere dall’ordinamento di provenienza: ciò significa che non solo la norma penale specificamente posta dal legislatore vaticano (norma vaticana “propria”) e quella di derivazione canonica, ma anche quella “recepita” dall’ordinamento internazionale o dal diritto italiano non va interpretata secondo i criteri dell’ordinamento giuridico di origine, ma seguendo i parametri del sistema canonico. Questo parametro ermeneutico costituisce un’eccezione alla regola generalmente seguita in ambito internazionale, ove il criterio è esattamente l’opposto. Se a ciò si aggiunge che l’ordinamento di recezione (SCV) non impone un proprio criterio interpretativo in termini sostanziali, ma rimanda a quello di un ordinamento ulteriore (cioè quello canonico), emerge ancora maggiormente tutta la complessità e assoluta unicità del sistema normativo vaticano.
Alla luce di queste considerazioni si possono forse meglio comprendere le inevitabili particolarità del sistema vaticano che non hanno riscontro in nessun altro ordinamento statuale e che non possono non essere considerate quando si procede ad un’analisi comparativa. Una comparazione infatti è sempre possibile, ma rischia di essere talvolta fuorviante se pretende di applicare meccanicisticamente, anche in campo penale, i principi di altri ordinamenti, senza tener conto del carattere di fondo del diritto di uno Stato che ha quale sua prima fonte normativa il diritto della Chiesa. L’impostazione sistematica che prevede che tutto il diritto interno statuale sia interpretato alla luce dei principi e dei criteri ermeneutici provenienti da un diverso ordinamento (quello canonico), rappresenta certamente una delle maggiori peculiarità del sistema giuridico vaticano ed è la cartina di tornasole della stessa funzione necessaria di questo Stato così singolare, che nasce ed esiste in funzione della Sede Apostolica, per garantire la libertà alla Chiesa cattolica nello svolgimento della sua missione spirituale nel mondo. ©
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