Pensavamo che il Covid-19 avesse avviato un cambiamento epocale nei modi di vivere e lavorare ma all’orizzonte, oltre ad altri temuti virus come l’influenza suina o il Nipah fortunatamente ancora circoscritti, si sta definendo un futuro più preoccupante.
È infatti notizia del mese di dicembre (2020, ndr) la quotazione in borsa dell’acqua. Si, è proprio così, l’acqua è stata quotata in borsa per la prima volta nella storia. L’8 dicembre il Nasdaq Veles California Water Index quotava l’acqua a $ 486,53 per piede acro, equivalente a circa 435 euro ogni 1.233 metri cubi. Il suo prezzo è basso perché la quotazione è iniziata da poco, ma come titolo derivato potrà essere oggetto di speculazione finanziaria al pari di diamanti, petrolio, oro o mais, oscillando con l’andamento del mercato oppure sulla base delle previsioni degli strumenti finanziari.
Cosa potrebbe esserci di più preoccupante che scommettere sull’approvvigionamento alimentare mondiale? Forse la totale assenza di una politica competente. Era necessaria una risposta dalla politica, quella che governa i paesi, ma non c’è stata. Nel 2010 l’Assemblea generale dell’Onu ha inserito l’accesso all’acqua potabile tra i diritti umani universali e fondamentali. In Italia, nel 2011 si è svolto un referendum per bloccare la privatizzazione della gestione delle risorse idriche. Anche da noi, purtroppo, il secondo quesito referendario del 2011 ha confermato che il servizio idrico è un servizio pubblico locale a rilevanza economica da gestire secondo le leggi del mercato (vedi sentenza Consiglio di Stato n. 02481/2017).
Dunque, l’acqua scarseggia e viene quotata come risorsa in previsione di terminare così come per l’oro, con l’unica differenza che senza l’acqua non c’è vita. Uno studio pubblicato lo scorso anno su Nature ha mostrato come montagne e ghiacciai di tutto il mondo non riescano più a stoccare e immagazzinare l’acqua per colpa della crisi climatica, e come questo porterà in pochi anni ad una vera e propria emergenza idrica mondiale con quasi due miliardi di persone che “moriranno” di sete.
Nell’ultimo periodo la politica prova a mostrarsi impegnata nel contrasto alla crisi climatica combattendo l’uso delle auto a combustione interna. Ma siamo proprio sicuri che serva? Durante l’accordo di Parigi sul clima nel 2015, sottoscritto anche dall’Italia oltre che da 195 Paesi, è stato fissato l’obiettivo di arrivare entro 20 anni a 600 milioni di auto elettriche in circolazione. In Italia l’importo degli incentivi varia tra i 1.500 e i 6.000, troppo poco dato che un veicolo elettrico costa minimo 30.000 euro, su cui influisce fino al 50% il costo della batteria.
Il 16 dicembre scorso Bloomberg NEF ha pubblicato il suo sondaggio annuale sui prezzi delle batterie rilevando che i prezzi sono diminuiti del 13% rispetto al 2019. Era la notizia attesa. I prezzi delle batterie agli ioni di litio, che erano superiori a $ 1.100 per kilowattora nel 2010, sono scesi dell’89% in termini reali a $ 137 / kWh nel 2020. Entro il 2023, i prezzi medi saranno vicini a $ 100 / kWh, prezzo che consentirà alle case automobilistiche di produrre e vendere veicoli elettrici sul mercato di massa allo stesso prezzo di quelli a combustione interna.
Il giorno seguente, il 17 dicembre 2020, il leader di Toyota ha criticato questo eccessivo clamore sui veicoli elettrici dicendo che i sostenitori non hanno considerato il carbonio emesso dalla generazione di elettricità e i costi di una transizione di veicoli elettrici. Kiichiro Toyoda ha affermato che il Giappone esaurirebbe l’elettricità in estate se tutte le auto funzionassero con energia elettrica. L’infrastruttura necessaria costerebbe al Giappone tra i 14 trilioni e i 37 trilioni di yen (da 135 a 358 miliardi di dollari). Inoltre, la maggior parte dell’elettricità del paese viene generata bruciando carbone e gas naturale, quindi, non aiuterebbe l’ambiente. Esattamente ha affermato: “Più veicoli elettrici costruiamo, peggiore diventa l’anidride carbonica … Quando i politici sono là fuori a dire: ‘Liberiamoci di tutte le auto che usano benzina’, lo capiscono?”
Il rapporto Bloomberg prevede anche che, con i progressi della tecnologia delle batterie, come quelle con elettroliti a stato solido, il prezzo per kwh potrebbe scendere ulteriormente fino a $ 58 per kwh entro il 2030. Gene Berdichevsky, tuttavia, ex-ingegnere Tesla e co-fondatore della società Sila Nanotechnologies, non è d’accordo, considerando le batterie a stato solido una “falsa speranza”: le classiche batterie potranno scendere ad un costo di produzione di 50 dollari per kWh nei prossimi cinque o dieci anni. A questo punto la lotta alla crisi climatica passerà attraverso la domanda globale dei componenti di queste batterie, tra cui il cobalto. La Cina ha preso già posizione da tempo in questo campo, controllando sette delle più grandi miniere della Repubblica del Congo, che da solo ha la disponibilità del 70% del cobalto mondiale. Ma anche il cobalto è destinato ad esaurirsi entro i prossimi 50 anni, poiché per soddisfare i bisogni mondiali ed aiutare la transizione energetica dovremo estrarre più di quanto abbiamo mai fatto prima.
A questo punto si è delineato il percorso che stiamo compiendo: per combattere la crisi climatica che sta portando all’esaurimento dell’acqua dovremo utilizzare altre risorse, purtroppo anche loro in esaurimento, e riserve idriche per la loro estrazione come non abbiamo mai fatto dall’inizio dei tempi. È palese anche a voi, adesso, il paradosso a cui stiamo andando incontro? Ci sono altre vie, si tratta di scegliere quella giusta per il nostro futuro e quello dei nostri figli.
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