Il suicidio in carcere: indice di una parziale sconfitta del sistema penitenziario

di Noemi Gennari

L’insieme complesso di sintomi che caratterizzano la vita detentiva dei soggetti ristretti, sintomi suscettibili di evolvere in patologie diverse e gravi, può avere culmine nell’evento suicidario. Si tratta di un accadimento irreparabile che merita alcune considerazioni, considerata l’ampiezza del fenomeno non tanto in termini assoluti quanto rispetto al verificarsi dell’evento proprio nell’ambito carcerario dove l’incidenza alla rinuncia alla vita risulta oggi ben maggiore che non nella società libera.

 


Il rifiuto della vita

Il rifiuto della vita è argomento affrontato da molteplici discipline, la storia, la filosofia, la psichiatria, la teologia, la medicina e molte altre scienze hanno condotto approfondite analisi alla ricerca delle cause, della logica, degli scopi, dei significati che un atto di fine vita vuole comunicare. Si può dire che un elemento ricorrente contraddistingue questa scelta irreparabile: il suicido certifica sempre una sconfitta, indipendentemente dal luogo dove avviene. Sappiamo poi che ai nostri giorni la problematica del suicidio come scelta libera e razionale si lega spesso al dibattito sul suicidio assistito dei malati gravemente sofferenti.

Il suicidio, con la sua irreparabilità, è un dramma umano con molte cause ma è incombente ed ha un carattere del tutto assorbente quella che ci riconduce al luogo, al carcere, che negando la libertà e la libera autodeterminazione nel quotidiano ai soggetti ristretti realizza una condizione del tutto innaturale dell’essere umano, che ha bisogno di esprimersi senza limitazione. Non è un esercizio di pura accademia chiedersi del perché un progetto di suicidio interviene nella mente di un detenuto, anzi è analisi di particolare momento proprio ai fini dell’attività di prevenzione e di riconoscimento dei segnali predittivi di intenzioni pericolose. La risposta non è semplice e troppo facile sarebbe ricondurre il suicidio alla sola disperazione per mancanza di prospettive perché, se così fosse, anche una malattia irrimediabile avrebbe uguali conclusioni, mentre questi due tunnel, apparentemente senza uscita, hanno caratteristiche diverse, da un lato, in ospedale, lo spazio della speranza che viene a mancare è occupato dalla consolazione, dagli affetti, dai legami e dai sentimenti, in un quadro di comunicazione aperto che anzi tende ad intensificarsi con il progredire della malattia mentre dall’altro lato, quello del carcere, la regola è imposta, la condivisione di spazi chiusi è promiscuità, le forme e i tempi di comunicazione calati dall’alto.

Il suicidio in carcere

Purtroppo, nel caso del suicidio registrato fra la popolazione detenuta la certificazione della sconfitta finisce per essere doppia, quella che attiene a chi si è autoinflitto la morte, superando l’istinto di conservazione, e quella che investe il suo temporaneo custode. Nell’evento suicidario carcerario c’è infatti la conferma di non aver saputo trovare una soluzione alla scelta di rinunciare a vivere, così da chiamare in causa se non la responsabilità, almeno anche i limiti del sistema custodiale coattivo, le sue tante debolezze. A questo proposito, è da ritenere che un prezioso contributo possa e debba essere fornito da chi è parte di quelle debolezze e ciò con l’intento di approfondire e ricercare suggerimenti dall’esperienza diretta, individuare le aree di intervento, finalizzare la prevenzione, attivare energie nuove perché quel fenomeno estremo e irrimediabile possa, se non annullarsi, almeno essere via via più contenuto. A partire dall’aspetto “quantitativo” occorre estrarre poi le principali significatività del fenomeno, fare riferimento alle caratteristiche della persona, al suo vissuto socio ambientale, economico e familiare, alla sua vicenda giudiziaria, al profilo dell’atto suicidario, alle circostanze di luogo e di fatto in cui l’evento si è determinato, utili anche per verificare la validità dei presidi di prevenzione. Anche la lettura dei numeri richiede attenzioni particolari e chiavi interpretative attente, atteso che la modalità di raccolta dei dati, non è elemento secondario (un suicidio avviatosi in carcere e che ha un epilogo solo in Ospedale, potrebbe sfuggire al censimento, nella considerazione che trattasi di evento extra murario), così come i fenomeni contigui  del suicidio, tentato, simulato, e dei gesti di autolesionismo sono, per certi versi, dei suicidi parziali, ma non debbono essere trascurati, anzi questa sorta di “sconfinamento” risulta necessaria perché indicativa delle diverse e possibili cause che fanno da innesco all’incendio di fine vita.

Al suicidio intramurario si affiancano anche vicende contigue che a quella scelta si debbono accostare, quali i suicidi tentati o non riusciti, quelli simulati e altri atti di diverso autolesionismo.

È facile il passaggio dalla grave sofferenza che induce la privazione della libertà a quella pronta soluzione che offre il suicidio cancellando una vita prigioniera e con essa, però, ogni possibile alternativa.[1]

È indubitabile che sussistano stretti legami tra auto soppressione e penosità della restrizione. Il fattore ambientale, infatti, si combina con la personalità dell’individuo, interagisce con le sue patologie, fino ad essere determinante, fino a far concludere che il carcere stesso è patogeno. La popolazione carceraria non è di certo rappresentativa delle caratteristiche della popolazione in generale: essa, infatti, ne differisce per l’età media, per la distribuzione fra i due sessi, per la composizione culturale, per tutta una serie di elementi comportamentali, clinici, sociali e, soprattutto, per quel particolare status che costituisce il vero discrimine fra il recluso e l’uomo libero. La elevata conflittualità interna, la bassa estrazione sociale, le storie personali difficili, il vissuto degradato, e la scarsa alfabetizzazione, spesso associata a tossicodipendenza e alcolismo, nevrosi e diverse altre psicopatologie, sono un contesto esplosivo non sovrapponibile a quel mondo esterno al carcere dove tali situazioni sono pur presenti, ma si diluiscono in un universo più ampio. Vale per tutti la sottolineatura che si ritrova nel Ponti[2] dove lo status di detenuto e il vivere nell’ambiente carcerario sono, di per sé, fattori dotati di alta valenza psico-traumatizzante e porrebbero chiunque in una condizione di vita particolarmente precaria, qual è appunto quella del recluso, quale che sia la sua posizione, in attesa di giudizio o in esecuzione pena.

Appare superfluo a questo punto riaffermare la sofferenza implicita che si determina nella condizione detentiva fatta di isolamento dalla società, lontananza dagli affetti, confronto con i canoni della sottocultura carceraria dominante, e un regime di vita scandito da regole precise, ineludibili e particolarmente penose. Già lo psichiatra italiano Morselli[3] aveva evidenziato la maggior frequenza del suicidio carcerario rispetto al resto della popolazione, situazione confermata negli studi successivi compiuti da Topp[4], che fin dall’epoca quantificava il tasso interno già come tre volte superiore rispetto a quello registrato nell’universo esterno. E oggi la situazione è drammaticamente più grave.

È necessario però riflettere anche sui modelli interpretativi del fenomeno suicidario che, seppure si rifanno alla teoria generale sul suicidio, impongono una trattazione del tutto specifica, dove l’universo statistico è delimitato, ha un profilo non sovrapponibile alla società da cui pure proviene, ed ha motivazioni ed istanze assolutamente condizionate. Sembra ora opportuno dare uno sguardo alle indicazioni fornite dalle statistiche in ordine al fenomeno suicidario, così da poter affermare che in prigione ci si uccide in misura multipla rispetto a ciò che accade nel mondo libero e che il fenomeno è presente con maggiore incidenza nelle carceri sovraffollate, nelle strutture vecchie, nel primo periodo di permanenza, e maggiormente tra i più giovani e paradossalmente fra quelli che per età e posizione giuridica potrebbero sperare in una reclusione breve e un ritorno alla libertà. Risulta poi che il progetto suicidario appartiene di più ai detenuti in attesa di giudizio e a quelli in procinto di uscire, questi ultimi attinti dalla paura di un mondo che non sanno più come affrontare, disabituati alla logica della libertà e sovraccarichi del peso di una cittadinanza da ex detenuto. Va detto subito, però, che si tratta di un raffronto statistico in parte arduo e in parte azzardato, considerato che le rilevazioni della specie non sempre sono così facilmente sovrapponibili, ciò che ci costringe a parlare di una “misura multipla” del dato “interno” rispetto al mondo libero, laddove potremmo ben dire che per il suicidio in carcere “anche uno è troppo”. Inoltre, si può sostenere che il suicidio è un fenomeno che ha anche una sua “stagionalità”, ad esempio all’indomani di speranze disattese per atti di clemenza che non arrivano, ma l’effetto “stagione” più significativo è quello della concomitanza dell’estate, con attività rallentate e ferie dei volontari, degli Uffici del Tribunale di Sorveglianza, dei familiari che diradano le visite, mentre le giornate si allungano in un vuoto spreco di tempo fra ricordi e sogni impossibili.  La solitudine si accresce, così come lievita la sofferenza di un orizzonte di pochi metri quadrati e il caldo insolente e senza rimedio. Accomunati dalla perdita della speranza, i suicidi in carcere si differenziano allora nelle ragioni che ne hanno determinato il compimento, ragioni che probabilmente sono tante quanti sono i suicidi, perché la personalizzazione dell’atto lo rende imperscrutabile al di là degli sforzi classificatori volti a tipizzare l’evento. Come si può osservare, in questa circostanza sono stati omessi riferimenti numerici precisi, peraltro facilmente reperibili dalle fonti istituzionali, volendo qui privilegiare le caratteristiche tendenziali del fenomeno.

Di seguito alle amare riflessioni che si accompagnano inevitabilmente agli eventi in parola, occorre però ragionare in positivo e trovare idee perché, riaffermando sicurezza e giustizia, la società nel suo complesso sia sempre migliore, a partire dal suo sistema carcerario. L’ordinato svolgersi della vita sociale prevede che i condannati ai quali sia stata comminata una pena detentiva debbano scontare il loro reato nella restrizione fisica di un carcere, che tale pena non debba essere afflittiva e sia finalizzata alla rieducazione e al reinserimento del reo nella società libera. Si tratta, come è noto, di principi di natura costituzionale. In effetti, non può sfuggire una evidente contraddizione in termini, laddove si vuole sostenere implicitamente che la privazione della libertà non sia di per sé una afflizione, se non la più grave. Il carcere è un luogo innaturale per l’uomo, è imposizione delle relazioni interpersonali, è impedimento della autodeterminazione quotidiana, è costrizione a regole e contatti interni potenzialmente rischiosi, è un luogo dove il disagio, il risentimento e la rabbia si esaltano e incidono sulla sanità psichica dell’individuo, trasformando in modo irreversibile il suo essere.  E questo, senza nemmeno aver riportato le altre componenti afflittive proprie della detenzione, quale la restrizione degli spazi vitali, la rarefazione dei rapporti parentali, l’astinenza sessuale imposta di fatto, e molto altro ancora che è incompatibile con la pretesa non afflizione.

Per eliminare questa prima contraddizione occorrerebbe pensare ad una società senza carcere, magari a misure alternative volte alla riduzione della recidiva, e ciò anche se l’abolizione del carcere, ipotesi peraltro già teorizzata in alcuni ambienti, ha suscitato senza alcun dubbio reazioni prevalentemente ostili e procurato perfino contumelie verso gli analisti che si sono dedicati all’argomento. Ma il tema non va scartato aprioristicamente. Quando l’elemento di “ragionevolezza”, anche minimo, contenuto nella richiamata proposta, dovesse essere colto da qualcuno, si avvierebbe un discorso propositivo che può aprire una discussione possibilmente priva di pregiudizi e di tabù.  Non si tratta di un fascinoso esercizio filosofico, bensì di una constatazione che va nella direzione di riorientare il carcere verso la sua funzione in modo efficace, riscoprendo anche un ruolo di mediazione che al carcere può assegnare l’approccio sociologico. L’obiettivo della pena detentiva, infatti, dovrebbe essere quello di far sì che il periodo di carcerazione sia funzionale alla “rieducazione”. Il che significa, in parole povere, mettere l’ex detenuto nelle condizioni di non delinquere più, abbattere la recidiva, dopo il necessario riconoscimento della colpa, percorso non sempre agevole che passa perfino attraverso la relazione con la vittima. L’umanizzazione del carcere è già un passo avanti perché il pensiero di fare a meno del carcere possa risultare meno provocatorio e meno scandaloso.

Riprendendo le prime righe di questo articolo, la traccia statistica ha fornito indicazioni diverse che tuttavia hanno finito per rinnovare la centralità del concetto che la vita si perde quando, prima, si è già persa la speranza. La stessa sofferenza carceraria quale portato della mancanza della libertà, cioè un vuoto di autonoma quotidianità, una deprivazione degli affetti, una tutela della salute comunque precaria, appare perfino superata dalla incombenza, ben più grave, rappresentata dall’assenza di una prospettiva di vita “normale”. L’irrecuperabilità della dignità sociale perduta si somma ad un reinserimento nella società sicuramente problematico con effetti inibitori sulla volontà di combattere per la propria sopravvivenza. Si tratta poi, per la casistica dei suicidi in carcere, di numeri probabilmente sottostimati atteso che il censimento in parola esclude dalla categoria interessata i molti suicidi “tentati”, poiché a quella precisa categoria si accede solo con una determinazione adeguata, capacità di dissimulare, e un’accurata progettualità che consenta di realizzare compiutamente il nefasto disegno di morte all’interno delle mura.

Prevenzione

Il suicidio è un dramma che si può evitare, soprattutto se lo si conosce, se si conoscono i segnali predittivi, i fattori di rischio, il giusto modo di osservare tutto ciò, se si affrontano e si allestiscono con coraggio e senza falsi condizionamenti i presidi di prevenzione, se l’esecuzione penale riesce dismettere la carica di penosità inutile che reca con sé disponendosi, con migliori risultati, ad inseguire al meglio i suoi fini costituzionali. Invero occorre in primo luogo ribaltare la concezione che il suicidio possa essere un “rimedio” ad un problema che è e resta temporaneo, atteso che la carcerazione è un tempo sospeso in attesa della libertà. Ma quella libertà deve essere, oltre che desiderata, anche desiderabile.

Comunque, è vero che le azioni di prevenzione del rischio suicidario hanno visto la produzione di norme di carattere organizzativo e trattamentale volte a contrastare il fenomeno, sempre più incisive fino alla realizzazione di un “Piano Nazionale di Prevenzione del Rischio Suicidario”.[5] Purtroppo, i risultati restano ancora inadeguati, condizionati da una scarsità di risorse economiche ed umane e, in qualche misura, anche dalla poca attrattività che questo comparto riesce a suscitare, incapace di esprimere tutte le valenze dell’esecuzione penale che lo Stato democratico, con straordinaria intuizione, ha formulato attraverso i suoi principi costituzionali.

Nell’anno che si è da poco concluso sono stati ben 84 i detenuti che si sono tolti la vita, un dato record, 20 volte di più che nella libertà, uno ogni 670 presenti si è ucciso. È un segnale allarmante che fa il paio con la ripresa del sovraffollamento, fattore endogeno di criticità. Tornano gli argomenti che reclamano interventi nuovi e coraggiosi di riforma profonda del sistema. Le misure alternative, rivisitate e corrette, sono elementi preziosi per l’allentamento delle tensioni, ma soprattutto serve una riconsiderazione del percorso di recupero di un particolare gruppo di soggetti che, in relazione al reato commesso e alla personale condizione (si allude ad esempio alle tossicodipendenze e ai disturbi psichiatrici) finiscono per essere confinati nelle carceri anziché in strutture specializzate del territorio, con effetti spesso devastanti. A ben vedere, in tali casi, si tratta di problemi ancora irrisolti, propri della nostra società, che erroneamente pensa di risolverli attraverso il carcere, sperando di renderli invisibili. Al contrario, tali situazioni, con tutto il loro peso intrinseco e un domani impossibile da disegnare, gravano sull’istituzione carceraria del tutto inadeguata a fronteggiarle. Senza contare che nei casi di specie, vittime di questa situazione finiscono per essere sia i custoditi che i custodi.

Più di uno studio porta ad individuare nella cura delle relazioni parentali, nella continuità dell’affettività, nella conservazione dei collegamenti con l’esterno, uno dei fattori di recupero delle prospettive post carcerarie, in definitiva modernizzare l’interno per rendere credibile la rieducazione, e la restituzione dell’individuo alla società libera. La marginalità sociale ed economica della stragrande maggioranza dei ristretti ha bisogno di un percorso credibile di recupero per non scivolare nella china di un futuro così vuoto e privo di speranza. Allorquando si metterà ancora una volta mano ad una nuova riforma al regolamento penitenziario, è importante che quella riforma abbia in agenda una maggiore apertura ai rapporti con il mondo esterno, ai colloqui, alle telefonate, un potenziamento dell’accoglienza, in entrata e in uscita, perché la libertà negata non sia un abisso ma il riconoscimento dell’errore, e perché la libertà riconquistata non sia un luogo sconosciuto dove nessuno ti attende. Tenuto conto che la perdita della libertà e la separazione dal mondo è una condizione di per sé innaturale per l’uomo, si può già dire, come si è detto, che la causa dirimente è, di per sé, proprio la condizione detentiva, la quale espone al rischio suicidario ogni soggetto ristretto. Cionondimeno, è pensabile che una parte di questo rischio sia “importato”, cioè preesistente alla detenzione perché il bacino di origine che alimenta un carcere si colloca, per la più gran parte, nella società marginale dei reietti, per i quali l’impianto penitenziario di tipo trattamentale appare del tutto insufficiente. Anche solo in termini di “quantità” il percorso rieducativo risulta inadeguato rispetto alle esigenze effettive così da vanificare l’obiettivo del reinserimento. Si è fatto cenno che alcuni fattori predittivi di eventi suicidari sono stati analizzati a fini di prevenzione. Al riguardo va detto che sono emerse purtroppo solo modeste suggestioni più che indicazioni nette. Si è visto che l’andamento nel tempo del fenomeno è di tipo sinusoidale, avulso (a prescindere da eventi straordinari) dal tasso di sovraffollamento e sostanzialmente insensibile alle dimensioni dell’istituto.

Certo la vita interna in un carcere sovraffollato o in un istituto strutturalmente superato nell’impiantistica e nei suoi spazi, è condizionata da quell’ambiente, ma non si riesce a trovare conferme della significatività dell’incidenza suicidaria rispetto alla mera struttura di detenzione. Anche il fattore “età”, che indica una sovrastima tra i più giovani e una minore incidenza fra i più anziani poco contribuisce a conclusioni certe, atteso che la struttura demografica interna è su evidenze contrapposte rispetto a quella esterna, così come il genere e la nazionalità; in sostanza l’essere straniero, non motiva la costruzione di una eziologia valida correlata al fenomeno che qui ci occupa. Al contrario la posizione giuridica sospesa e la condizione di internato (categoria ad alta instabilità sociale e maggiori difficoltà di perseguire un progetto di reinserimento) sembrano variabili quanto meno da attenzionare, pur in assenza di studi ed evidenze scientifiche certe di supporto. Più suggestiva, invece, appare la denuncia di una fragilità affettiva tra i suicidi laddove i rapporti della specie più stabili sembrano favorire una sottorappresentazione del campione. Di questi due aspetti si dovrà tener conto nelle formule di prevenzione, favorendo la rapidità dei giudizi e la cura delle relazioni familiari come si è detto. Il regime detentivo della classificazione burocratica non sembra essere significativo tanto quanto lo sono, in effetti, le reali “condizioni” detentive, nelle quali l’isolamento e la minore socializzazione sono sicuramente pregiudizievoli e la normativa interna ne ha comunque sempre tenuto conto.  Circa la caduta in recidiva come motivazione fondante del gesto suicidario non ci si sente di poter fare una scelta di campo, avuto riguardo alla variegata situazione del censimento di esperienze detentive pregresse, talvolta brevi o brevissime, ma comunque registrate statisticamente, e con forti dubbi che possano aver incamerato interamente gli elementi strutturati della sub cultura carceraria in grado di amplificare la valenza e la pressione di una nuova detenzione.

Certo la prevenzione può svolgere un ruolo importante ma in tale ambito occorre ripensare meglio ad aspetti di sistema. A ben guardare l’attività di prevenzione svolta nel tempo non si è concentrata in un modello statico e immutabile, anzi la normativa secondaria ha rivisto più volte quel modello cercando di individuare cambiamenti utili di carattere organizzativo. In effetti, ai meriti del volontariato, agli sforzi di recuperare risorse umane ed economiche nelle pieghe dei bilanci, alla creatività organizzativa, manca ancora quella reinterpretazione del concetto di esecuzione della pena, che al di là di ogni buon proposito, anche di rango costituzionale, raccolga contenuti coerenti ai fini che si prefigge. Si potrebbe dire che la “pena” dovrebbe essere scaricata della sua “penosità”, che la privazione della libertà sia cioè un momento di rinascita, occasione positiva riscatto, di riconoscimento dell’errore. C’è da chiedersi quali siano gli strumenti realmente disponibili per agevolare questo processo che faccia da argine al convincimento che non ci sia, al di là del muro, e anche dentro al muro, una vita che merita di essere vissuta. L’osservazione ci dice che piccole correzioni, spesso senza costi, possono essere introdotte riconsiderando il lavoro, le relazioni parentali, la formazione e lo studio, la qualità delle relazioni con il personale addetto, i rapporti con il mondo esterno. È inutile negare che ancora oggi è convinzione diffusa (e spesso colpevolmente assecondata a diversi livelli) che ogni iniziativa, quindi risorse o attenzione, dedicata alla popolazione detenuta sia energia immeritata, sprecata, così che sopravvive il retropensiero della pena come vendetta. È vero il contrario, lavorando per le carceri, lavoriamo per noi, perché la nostra società, nel suo complesso, diventi migliore e abbia nel suo interno i semi per rigenerarsi, perdonare e perdonarsi e infine ripartire, senza contare che l’inazione ha un costo e il differimento dei problemi si paga sempre, e con gli interessi. Non ci sono, purtroppo, soluzioni pronte, ma qualche nuovo indirizzo può essere individuato, a partire, per esempio, dal lavoro. La proposizione appare quasi risibile, considerato lo stato di sofferenza in cui versa l’intera economia, ma in attesa della ripresa è  bene “preparare” il lavoro carcerario, magari rivedendo la matrice giuslavoristica in modo specifico, ma senza pregiudizio per i diritti e le tutele, in modo però da calibrare l’aspetto retributivo anche in rapporto alla valenza intrinseca del lavoro interno,  come antidoto, creando fiducia e prospettiva, a quella depressione, noia e senso del vuoto che fanno molto spesso da anticamera al gesto suicidario. Poi ci sono le cure delle relazioni parentali. I legami col mondo esterno dovrebbero trovare forme più consistenti di impiego perché l’isolamento della detenzione non si trasformi in una esasperata solitudine senza possibilità di ritorno. Il paradigma ora impiegato sembra voler far pagare al reo la sua colpa con una sorta di contrappasso che si realizza con un taglio dagli affetti. La colleganza tra il detenuto e la famiglia si esprime in forme diverse quali la corrispondenza, le comunicazioni telefoniche, le visite, i permessi, secondo una rigida disciplina che, per alcuni, appare perfino eccessivamente generosa, mentre la conservazione delle relazioni parentali sane è sicuramente il miglior viatico per dare corpo a significative prospettive di vita. Sotto altro profilo, nuovi passaggi possono essere individuati nelle relazioni con il personale addetto alla sorveglianza. Nel quadro di rinnovati rapporti interni, la penosità irragionevole che si può utilmente cercare di affievolire passa attraverso un modello evoluto di controllo tale da rendere più ampio lo spazio vitale del detenuto ben oltre il ricalcolo delle superfici con modulazione oraria. La sicurezza interna non può sfruttare inutili condizionamenti, regole inique e ingiustificate vessazioni mentre la comunità carceraria può ricercare i suoi equilibri in un ambiente quanto più teso alla normalità, capace di spezzare quelle consuetudini interne capaci di isolare i più deboli, prigionieri di una nuova e ulteriore prigione dalla quale pensano di poter evadere in un unico e drammatico modo. Ripensare la sorveglianza in modo significativo per indirizzarla verso traguardi più impegnativi, magari sfruttando ulteriormente quanto di buono ha prodotto la “contrattualizzazione” dei rapporti tra sorvegliati e sorveglianti, richiede molto coraggio e competenze specifiche, ma ogni lungo viaggio prevede un primo passo, e il solo pensarlo è già qualcosa. Nel chiudere questo lavoro si rinnova quindi la convinzione che il suicidio, con la sua irreparabilità, è un dramma umano e quando questo avviene in un carcere, la tragedia è doppia perché segna la sconfitta di chi ha rinunciato alla vita e di chi aveva in custodia quella vita.

La scelta del suicidio come forma di evasione dal luogo e dalla realtà è una determinazione lucida, magari con significato di protesta e ribellione, magari con intenti di rivendicazione, di vendetta. E non solo, perché il suicidio può nascere da un senso di vergogna, di rimorso, ma anche per paura del futuro che appare lontano, vuoto o compromesso. Se alcuni valori insiti nell’istituzione carceraria sono espressione di equilibrio, giustizia, democrazia e umanità quali trasudano dal dispositivo costituzionale che disciplina l’esecuzione penale, purtroppo la realtà parla d’altro. La realtà ci dice che l’attività trattamentale di psicologi e altri educatori, spesso è confinata all’allestimento delle “domandine”, così che il quadro rieducativo finisce per essere inefficace volendo somministrare una medicina uguale per tutti mentre tanto diversi sono gli ammalati e tanto diverse le loro malattie. È qui che si annida la prima metastasi del suicidio che poi si alimenta nel nulla della depressione, del vuoto di prospettive. Il suicidio è una fuga dalla vita che può essere impedito se anche il carcere riesce a non fuggire dalla lettura vera della sua realtà. Nulla, dunque, può essere più afflittivo dell’impedimento alla libertà, è nella natura dell’uomo non accettare quella costrizione, fino a non considerare più la vita da recluso come una vita possibile. E tuttavia il carcere esiste e viene diversamente interpretato, ora luogo della punizione e vendetta della società verso chi ha infranto le sue regole, ora enclave incapacitante per isolare le minacce alla pubblica sicurezza, ora ipotetico istituto di rieducazione coatta, talvolta anche rifugio lontano dagli occhi per i problemi irrisolti di una comunità incapace di sottrarsi alle sue debolezze e alle sue paure.

Alla fine, quando una persona privata della libertà decide di privarsi anche della vita stessa, allora poco importa se quella disperata decisione sia stata assunta sotto la pressione di uno spazio troppo contenuto, di una domandina a lungo ignorata, di una telefonata negata, oppure della notizia di una sentenza pesante, ciò che conta è che noi, tutti, in quel momento estremo, eravamo lontani.

[1] Buffa P., Alcune riflessioni sulle condotte autoaggressive poste in essere negli istituti di pena italiani (2006-2007), in Rassegna penitenziaria e criminologica Sett-Dic. 2008, p. 7 e ss., G. Terracina, Il fenomeno suicidario negli istituti penitenziari, 1998, in rassegnapenitenziaria.it

[2] Ponti G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990

[3] Morselli E., Il suicidio, Milano, Fratelli Dumolard, 1879.

[4] Topp D.O., Suicide in prison, British Journal Psychiatry, N. 134, 1979, p. 24-27

[5] La prevenzione del suicidio nelle carceri, World Health Organization, pag. 7 e ss.

 

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