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Illegittimo il divieto di possedere e utilizzare apparati di telefonia mobile

Corte costituzionale, sentenza n. 2/2023 (del 20/12/2022 – 12/01/2023)

di Giovanni Aliquò

La Corte costituzionale, con la Sentenza n. 2/2023 (del 20/12/2022 – 12/01/2023), ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 3, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) nella parte in cui include i telefoni cellulari tra gli apparati di comunicazione radiotrasmittente di cui il Questore può vietare, in tutto o in parte, il possesso o l’utilizzo. La pronuncia della Corte, ha avuto ad oggetto una disposizione del Codice antimafia introdotta per rafforzare l’efficacia preventiva dell’avviso orale del Questore. Con riguardo alle vicende storiche che avevano portato all’approvazione della norma censurata si ricorda che, all’inizio di questo secolo, si era verificata una particolare recrudescenza del contrabbando di tabacchi lavorati esteri. I più agguerriti contrabbandieri, si avvalevano di vere e proprie centrali radar a terra, di apparati radio ricetrasmittenti dotati di sistemi di crittazione delle comunicazioni, di natanti particolarmente veloci e di autoveicoli blindati e potenziati.

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Il legislatore, a fronte del ripetersi di eclatanti e sanguinosi episodi, con l’articolo 15 della legge 26 marzo 2001, n. 128, ritenne di modificare l’articolo 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, al fine di consentire al Questore l’adozione, nei confronti degli appartenenti alle categorie di persone pericolose di cui all’articolo 1, che risultassero definitivamente condannate per delitti non colposi, di speciali prescrizioni in aggiunta alla misura preventiva dell’avviso orale. La formula originaria dell’articolo 4, comma 4, prevedeva, il divieto di “possedere o utilizzare, in tutto o in parte, qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente, radar e visori notturni, indumenti e accessori per la protezione balistica individuale, mezzi di trasporto blindati o modificati al fine di aumentarne la potenza o la capacità offensiva, ovvero comunque predisposti al fine di sottrarsi ai controlli di polizia, nonché programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi”. L’articolo 3, comma 33, della legge 15 luglio 2009, n. 94 ha integrato tale catalogo con le seguenti, ulteriori previsioni: “…armi a modesta capacità offensiva, riproduzioni di armi di qualsiasi tipo, compresi i giocattoli riproducenti armi, altre armi o strumenti, in libera vendita, in grado di nebulizzare liquidi o miscele irritanti non idonei ad arrecare offesa alle persone, prodotti pirotecnici di qualsiasi tipo, nonché sostanze infiammabili e altri mezzi comunque idonei a provocare lo sprigionarsi delle fiamme”. Il tutto è stato trasfuso nell’attuale articolo 3, comma 4, del D. lgs. N. 159/2011.

La pronuncia della Corte costituzionale, da ascriversi alla tipologia delle interpretative di accoglimento, pur potendo suscitare qualche perplessità in relazione ai principi evocati e ai possibili riflessi che l’ulteriore applicazione di essi potrebbe determinare in futuro sulla disciplina delle misure di prevenzione, merita un approfondimento che aiuti a intendere fino a che punto, allo stato, restino incise le vigenti disposizioni preventive, anche al fine di mettere a fuoco, nella prassi, i corretti orientamenti operativi.
Effettivamente, la norma sull’avviso orale può prestare il fianco a delle critiche dal punto dei parametri costituzionali evocati (segnatamente gli articoli 15 e 21 Cost.) che, allorquando siano applicate le misure inibitorie tendenti a “rafforzare” tale provvedimento, vengono più facilmente all’evidenza.
Innanzitutto, non può dubitarsi che, mentre l’avviso orale semplice è una misura meramente monitoria, che, a differenza del precedente istituto della diffida, non funge nemmeno quale presupposto per la richiesta di applicazione della più grave misura di prevenzione della sorveglianza speciale, i divieti di cui all’articolo 3, comma 4, del D. lgs. n. 159/2011, adottati da un’Autorità amministrativa quale è il Questore e sanzionati ai sensi dell’articolo 76, comma 2, del medesimo Decreto legislativo, incidono concretamente sulla sfera dei diritti dell’individuo. Ciò induce a ritenere che, quando il legislatore pensò di rafforzare l’avviso orale del Questore, con riferimento ai divieti introdotti avrebbe dovuto prevedere un termine minimo e, soprattutto, massimo di durata del provvedimento; spirato il termine finale, le misure stesse – salva una rinnovata valutazione di pericolosità del sottoposto – avrebbero dovuto decadere.
Ma la Corte, su questo, come su altre questioni di illegittimità pur evocate nelle ordinanze di rimessione (presunta lesione del diritto di accesso alla rete, ex artt. 3, secondo comma, 21 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo con riguardo agli artt. 8 e 10 CEDU; l’asserito deteriore trattamento riservato ai destinatari del divieto di possedere e usare telefoni cellulari rispetto ai sorvegliati ex art. 4 cod. antimafia) non si pronuncia, rilevando piuttosto l’assorbente lesione dell’articolo 15 Cost., con riguardo alla necessità di tutelare la libertà di comunicazione del pensiero.

Ricostruendo la genesi della norma fin dai lavori parlamentari, la Corte osserva come, tra i vari mezzi e strumenti di cui il Questore può vietare il possesso o l’utilizzo, «in tutto o in parte», ai soggetti che si trovino nelle condizioni previste dallo stesso art. 3 cod. antimafia, gli apparati di comunicazione radiotrasmittente sono posti dalla norma censurata in un catalogo di strumenti “di uso non comune, quasi di natura eccezionale, il cui impiego parrebbe indicativo della volontà di compiere specifiche attività delittuose offensive o difensive (per sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine), anche mediante l’uso o l’esibizione della forza”.

A fronte di ciò la Corte, passando in rassegna la giurisprudenza di legittimità in materia di “telefonia cellulare”, rimarca come il costante orientamento abbia, invece, finito per equiparare gli apparati di telefonia radiomobile agli “apparati di comunicazione radiotrasmittente” di cui alla normativa di prevenzione in esame (si veda: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 24 febbraio-2 aprile 2021, n. 127793, 22 settembre-14 ottobre 2020, n. 28551, 26 febbraio-17 giugno 2019, n. 26628, 11 settembre 2018-7 gennaio 2019, n. 314 e 3 dicembre 2013-3 luglio 2014, n. 28796; sezione settima penale, ordinanza 18 ottobre 2018-7 gennaio 2019, n. 294; e con un’indiretta conferma da parte delle Sezioni unite civili, sentenza 2 maggio 2014, n. 9560, in materia di tasse di concessione governative).

La Corte censura questa interpretazione della norma, ritenendo che una lettura più aderente alla ratio legis avrebbe dovuto indurre a circoscrivere l’ambito tecnico del divieto del Questore solo ad apparati radio di uso non comune, “univocamente e abitualmente destinati a un determinato scopo criminoso”, le cui caratteristiche, in altre parole, siano tali da mettere in evidenza la specifica volontà di usare la tecnologia per attuare possibili azioni criminose, ostacolare le indagini di polizia o sfuggire ai relativi controlli.
Il telefono mobile, invece, ha assunto una diffusione così universale nella vita lavorativa, privata e familiare delle persone (anche per l’accesso a Internet e ai relativi servizi) da divenire uno strumento essenziale per consentire le ordinarie relazioni umane della persona e, dunque, il divieto di possesso di tale apparato si traduce in un inammissibile limite alla libertà di comunicare. Invero, la Corte sottolinea espressamente come la garanzia costituzionale della libertà (e della segretezza) della corrispondenza si estenda ad ogni forma di comunicazione, facendo così emergere nuovi mezzi di cui deve essere assicurata la protezione.
Tuttavia, proprio con riguardo ai mezzi di volta in volta utilizzati, la Corte afferma che sia cosa diversa la regolazione del loro uso rispetto al diritto fondamentale in esame: “anzi, sempre in termini generali, ben può dirsi che limitazioni relative all’uso di un determinato mezzo o strumento non necessariamente si convertono in restrizioni al diritto fondamentale che l’impiego di quel mezzo o strumento consenta, per avventura, di soddisfare”.

Nel caso del telefono mobile, però, avuto riguardo al particolare rilievo che questo strumento riveste a livello relazionale e sociale, la Corte ha ritenuto che l’estensione del divieto a tale strumento abbia superato il limite oltre il quale “la disciplina che incide sul mezzo… finisce per penetrare all’interno del nucleo essenziale del diritto, determinando evidenti ricadute restrittive sulla libertà tutelata dalla Costituzione”.
La Corte, pertanto, pur confermando come le esigenze di prevenzione ben possano giustificare l’esistenza nell’ordinamento di incisive misure restrittive, quali quelle che il Questore ha facoltà di assumere ai sensi dell’art. 3, comma 4, D. lgs. n. 159/2011, ritiene che tali misure limitative di diritti fondamentali e inviolabili sanciti dalla Costituzione, siano legittime solo se subordinate al principio di legalità e siano assistite dalla garanzia della riserva di giurisdizione, potendo così essere assunte esclusivamente con atto motivato dell’Autorità giudiziaria. La legge non può consentire al Questore di adottare il provvedimento poiché l’art. 15 della Costituzione non lo consente.
Peraltro, secondo la Suprema Corte è ininfluente, ai fini del rispetto della riserva di giurisdizione, che il provvedimento di un’Autorità amministrativa possa essere oggetto di un successivo riesame da parte del giudice, poiché quel che rileva è esclusivamente il potere di decidere l’applicazione della misura stessa: “Se tale potere è conferito ad un’autorità non giudiziaria, nessun riferimento ad una «fattispecie a formazione progressiva», sulla base della previsione di un eventuale, successivo intervento del giudice, può emendare il vizio di legittimità costituzionale.”

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In questa cornice, secondo la Corte, il Questore, nell’esercizio del potere di proposta di applicazione della misura della sorveglianza speciale, potrà in ogni caso ben chiedere al competente Tribunale che a un determinato soggetto sia imposto, con il provvedimento che dispone la misura stessa, il divieto di possedere o utilizzare un telefono cellulare (ai sensi dell’art. 8, comma 5, D. lgs. n. 159/2011).
Tanto detto, si ritiene utile, sulla base di questa pronuncia, verificare in quale misura residui ancora per il Questore, il potere di adottare un “avviso orale rafforzato” dal divieto di utilizzare apparati di radiocomunicazione su cui la pronuncia della Corte costituzionale in esame ha inteso incidere.
Deve preliminarmente osservarsi come l’applicazione all’avviso orale dei divieti di cui all’articolo 3, comma 4, D. lgs n. 159/2011 debba sempre essere oggetto di una specifica motivazione, caso per caso e misura per misura. Il Questore, infatti, affinché il suo provvedimento non sia oggetto di annullamento o disapplicazione in sede penale deve rendere ostensibili, in chiave di prevenzione specifica, i motivi per i quali sono applicate delle restrizioni al sottoposto. In linea di massima, dunque, dovrebbe evitarsi un’applicazione “a pacchetto” dell’intero catalogo di divieti, essendo preferibile scegliere sartorialmente le misure che meglio calzino al soggetto, tenuto conto del suo profilo, delle specifiche esigenze preventive e della flessibilità che la norma offre consentendo di applicare anche solo “in parte” un divieto rispetto a categorie di strumenti solo genericamente definite.
Con riguardo ai singoli divieti previsti dalla medesima norma, si può affermare che tuttora, seguendo l’impostazione “conservativa” della Corte costituzionale, sia ammissibile un divieto circoscritto ad apparati radiotrasmittenti diversi dai comuni apparati di telefonia mobile, dotati di particolari caratteristiche d’impiego (es. radio munite di GPS, satellitari, multibanda, apparati radio comunque soggetti a licenza radioamatoriale o altre autorizzazioni, ecc.) che li rendano, eventualmente anche in relazione a una sorta di “rete” dedicata (es., centrali di radio private, ponti radio, ecc.), funzionali alla commissione di attività illecite. Quanto detto vale, a maggior ragione, per tutti gli apparati di comunicazione radiotrasmittenti che, come i radiocomandi o telecomandi, non siano ordinariamente destinati alla comunicazione del pensiero umano, ma per trasmettere da remoto impulsi potenzialmente atti ad agevolare, con il controllo a distanza di congegni di varia natura, l’esecuzione di azioni criminali o a sfuggire alle Forze di polizia (es. apparecchi per governare i droni o per attivare ordigni).
Analogamente delicata è la questione che concerne i “radar”, per la quale, in vista di altri diritti fondamentali sanciti dalla legge e alla progressiva diffusione di tali mezzi (es. lavoro marittimo, automezzi stradali, ecc.), l’interpretazione deve, ad avviso di chi scrive, propendere restrittivamente verso strumenti la cui finalità, anche in relazione ai mezzi e infrastrutture cui sono destinati (es. quelli montati su scafi da carico particolarmente veloci, stazioni radar di terra, georadar in grado di rivelare la presenza di reperti archeologici, ecc.), possa essere quella di agevolare la commissione di “specifiche attività delittuose offensive o difensive (per sottrarsi ai controlli delle forze dell’ordine)”.

Con riferimento agli altri strumenti, si ritiene che una questione si ponga rispetto ai “programmi informatici ed altri strumenti di cifratura o crittazione di conversazioni e messaggi”. Qui, a differenza di quanto sembra ritenere la Corte, non si è più (necessariamente) in presenza di “strumenti di uso non comune, quasi di natura eccezionale, il cui impiego parrebbe indicativo della volontà di compiere specifiche attività delittuose offensive o difensive”. Oggi, come pure al tempo in cui la norma venne emanata, i programmi e gli strumenti che consentono la crittazione di messaggi e conversazioni sono piuttosto comuni. E quando si parla di “programmi e strumenti” non si deve per forza pensare alle sofisticate “cifranti” d’uso militare.
Già al tempo in cui venne emanata la norma alcuni apparati di telefonia mobile più sofisticati, ma normalmente in commercio, consentivano, infatti, la cifratura dei contenuti dei messaggi. Oggi i più comuni programmi di messaggistica, i cui applicativi sono ormai facilmente reperibili in rete e installabili anche sui più modesti computer e apparati di telefonia mobile, assicurano un’efficace crittografia “end to end” di comunicazioni scritte e verbali. Anche le funzionalità di cifratura di questi programmi di messaggistica e crittografia sono da ritenersi funzionali all’esercizio del diritto di comunicazione di cui all’articolo 15 della Costituzione e, dunque, da escludersi dalle possibilità inibitorie del Questore? Si ritiene che la risposta debba essere negativa, almeno nella misura in cui il ventaglio delle alternative “non protette” a tali programmi di comunicazione è abbastanza ampio.
Non sembra, per vero, che in questo caso ricorra una restrizione intollerabile al nucleo essenziale della libertà costituzionalmente garantita, e che sussistano, invece, evidenti esigenze di bilanciamento secondo cui, assicurato l’esercizio della libertà stessa (potendosi, in ogni caso, veicolare messaggi scritti mediante l’alternativa degli SMS non cifrati cui, storicamente, sono abilitate le reti di telefonia cellulare), possa prevenirsi l’abuso dei telefoni mobili da parte di persone pericolose. Le limitazioni che l’Autorità amministrativa dovesse porre con riguardo a tali applicativi di messaggistica, nei limiti disegnati dalla Corte, non integrano alcuna inibizione del diritto fondamentale a comunicare che l’impiego ordinario di quegli stessi apparati può soddisfare. ©

 

 

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