di Pietro Errede
Corte di Cassazione, Sezione V Penale, sentenza n. 25774 del 23 aprile 2014 e depositata il 16 giugno 2014
La suprema Corte ha affermato che integra il reato di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.), la condotta di colui che crei ed utilizzi un “profilo” su social network, utilizzando abusivamente l’effige di una persona del tutto inconsapevole, al fine di comunicare con altri iscritti e di condividere materiale in rete.
Nel continuo confronto fra il codice Rocco del 1930 e i comportamenti umani del ventunesimo secolo, in particolare nel mondo virtuale del web, tutta la recente giurisprudenza sembra ancora giungere alla conclusione che cambiano i mezzi ma il reato non cambia. Sicuramente lo si può affermare per il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), perfettamente applicabile anche ai comportamenti tenuti in Internet. Proprio tale sistema di comunicazione ne agevola l’esecuzione.
Dietro nickname, account e profili dei social network è molto più facile fingere di essere qualcun altro. Diventa reato nel momento in cui lo si fa con l’intento precipuo “di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno” inducendo terzi in errore. Quattro le condotte specificatamente previste:
- sostituzione fisica della propria all’altrui persona,
- l’attribuzione di falso nome (intendendosi tutto il complesso dei segni distintivi di identità, ad es. luogo e data di nascita, paternità, maternità),
- l’attribuzione di falso stato (cioè la condizione della persona nella società, ad es. la cittadinanza, la capacità di agire, i rapporti di parentela, la condizione di coniugato),
- l’attribuzione di una qualità cui la legge riconnette effetti giuridici (Cass. Pen. 4.11.2008, n. 41142: “La sostituzione di persona si può realizzare con l’attribuzione anche di una falsa qualità alla quale l’ordinamento attribuisce effetti giuridici. E l’ordinamento riconosce alla qualità di ministro di culto effetti civili ed amministrativi. Ai fini poi della sussistenza del reato non è necessario che il fatto tenda ad un’attività tipica della qualità, essendo sufficiente soltanto la coscienza di attribuirsi falsamente quella e che detta abbia leso la fede pubblica. Nella specie è irrilevante che la qualità di sacerdote sia stata assunta al fine di vendere libri cioè per un’attività non tipica di sacerdote perché quello che conta è la coscienza della attribuzione falsa”; Cass. Pen. 18.5.2007, n. 19472; Cass. Pen. 26.02.2004, n. 8670).
Il reato si consuma con l’induzione in errore di terzi pur non essendo necessario che si realizzi effettivamente il danno e/o il vantaggio. Si può configurare anche il tentativo: “questo si concreta quando l’agente ha usato uno dei mezzi fraudolenti di cui all’articolo 494 c.p., ma senza indurre in errore taluno” (Cass. Pen. 6.3.2009, n. 10362; Cass. 21.12.84 n. 2543 Rv. 168348). Se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, è punito con la reclusione fino a un anno. Le indagini si avviano d’ufficio senza la necessità di una querela di parte.
Sulla base di questi elementi una delle prime sentenze cardine circa la sostituzione di persona nel mondo web è stata Cassazione Penale 14.12.2007, n. 46674: “Oggetto della tutela penale, in relazione al delitto preveduto nell’articolo 494 c.p., è l’interesse riguardante la pubblica fede, in quanto questa può essere sorpresa da inganni relativi alla vera essenza di una persona o alla sua indentità o ai suoi attributi sociali. E siccome si tratta di inganni che possono superare la ristretta cerchia d’un determinato destinatario, così il legislatore ha ravvisato in essi una costante insidia alla fede pubblica, e non soltanto alla fede privata e alla tutela civilistica del diritto al nome. In questa prospettiva, è evidente la configurazione, nel caso concreto, di tutti gli elementi costitutivi della contestata fattispecie delittuosa. Il ricorrente disserta in ordine alla possibilità per chiunque di attivare un “account” di posta elettronica recante un nominativo diverso dal proprio, anche di fantasia. Ciò è vero, pacificamente. Ma deve ritenersi che il punto del processo che ne occupa sia tutt’altro. Infatti il ricorso non considera adeguatamente che, consumandosi il reato “de quo” con la produzione dell’evento conseguente all’uso dei mezzi indicati nella disposizione incriminatrice, vale a dire con l’induzione di taluno in errore, nel caso in esame il soggetto indotto in errore non è tanto l’ente fornitore del servizio di posta elettronica, quanto piuttosto gli utenti della rete, i quali, ritenendo di interloquire con una determinata persona, in realtà inconsapevolmente si sono trovati ad avere a che fare con una persona diversa”. Nella specie l’imputato, uomo, si era spacciato per una donna realmente esistente e quest’ultima fu destinataria di telefonate da uomini che le chiedevano incontri a scopo sessuale.
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