La circostanza aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso postula l’effettivo impego della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo

di Giovanni Francolini

Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 47588 del 30 aprile 2015, depositata il 2 dicembre 2015
La configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991 n. 203, nella forma del «metodo mafioso», è subordinata alla sussistenza nel caso concreto di condotte specificamente evocative della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo, non potendo essere desunta unicamente dalla peculiare carica di intimidazione connessa allo strumento prescelto dal reo (nel caso di specie, la condotta degli agenti si era sostanziata nell’attentato ai danni dei mezzi operativi presenti nel cantiere della persona offesa)”.


1.     Introduzione

La pronuncia in commento è stata resa a seguito dell’impugnazione di una sentenza con la quale la Corte di appello di Genova – per quel che qui rileva – aveva affermato la penale responsabilità di due soggetti in concorso per i delitti di incendio e danneggiamento seguito da incendio.
Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, contestando la ritenuta aggravante dell’aver agito utilizzando il metodo mafioso, contemplata dall’art. 7 D.L. 152/1991 conv. con L. 203/1991, ed osservando come nella specie non vi fosse stato alcun riferimento a comportamenti intimidatori, tali da alludere a un’associazione mafiosa della cui esistenza non vi era traccia ovvero al fatto che essi avessero agito al fine di agevolare un’associazione mafiosa (ipotesi, quest’ultima, non in contestazione).

2.     L’aggravante prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991
L’art. 7 D.L. 152/1991 prevede un aggravamento della pena per i delitti:
commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416bis c.p., che – com’è noto – incrimina le associazioni di tipo mafioso anche straniere;
ovvero commessi al fine di agevolare l’attività delle medesime associazioni.

La norma in esame contempla, dunque, due ipotesi distinte sebbene logicamente connesse:
“la prima, a carattere oggettivo, ricorre quando l’agente o gli agenti delinquono con metodo mafioso, ponendo in essere una condotta idonea ad esercitare una particolare coartazione psicologica, anche su un numero indeterminato di persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata”; “in tal caso non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, sia già di per sé tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso”;
“la seconda […], di tipo soggettivo, si sostanzia nella volontà specifica di favorire ovvero di facilitare, con il delitto posto in essere, l’attività del gruppo che, postulando dunque che il reato sia commesso al fine specifico di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, implica […] necessariamente l’esistenza reale e non […] supposta di questa” (così, per tutte, Cass., I, 18 marzo 1994, n. 1327; Id., S.U., 28 marzo 2001, n. 10; Id., II, 14 ottobre 2015, n. 45321; si veda pure, però, Id., II, 13 marzo 2014, n. 17879, secondo cui la configurabilità dell’aggravante “non richiede necessariamente la sussistenza di una compagine mafiosa o camorristica di riferimento non solo quando è contestato l’utilizzo del metodo mafioso, ma neppure quando è addebitata la finalità agevolativa, anche se, in questa seconda evenienza, occorre che lo scopo sia quello di contribuire all’attività di un’associazione operante in un contesto di matrice mafiosa, in una logica di contrapposizione tra gruppi ispirati da finalità di controllo del territorio con le modalità tipiche previste dall’art. 416bis c.p.”).

L’aggravante – ad effetto speciale, poiché in forza di essa la pena è aumentata da un terzo alla metà – è configurabile rispetto ad ogni delitto, non punito con l’ergastolo, realizzato attraverso una condotta che ricolleghi l’atto alla forza intimidatrice derivante dal gruppo associativo di stampo mafioso, indipendentemente dal fatto che il soggetto agente faccia parte o meno del sodalizio mafioso (Cass., I, 5 marzo 2004, n. 22629).
Essa, in entrambe le forme testé indicate, è configurabile anche con riferimento ai reati-fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso (per tutte, cfr. Cass., n. 10/2001, cit.; Id., II, 18 settembre 2007, n. 9167; Id., VI, 26 febbraio 2009, n. 15843) e anche quando il delitto cui accede concorra con quello di cui all’art. 416bis c.p.; “ed invero una cosa è partecipare ad un’associazione per delinquere e cosa diversa è commettere un reato, anche se rientrante nel programma associativo, avvalendosi del metodo mafioso o al fine di agevolare l’attività dell’associazione: in tali ipotesi, infatti, la condotta mafiosa caratterizza il momento specifico della commissione del reato-fine, mentre nel reato associativo rappresenta una caratteristica permanente dell’azione criminosa; da ciò consegue ulteriormente che l’aggravante de qua non può ritenersi sussistente, per la concreta assenza dei suoi presupposti di fatto, qualora l’associato commetta un reato, pur rientrante nel programma comune, non utilizzando il metodo mafioso ovvero non agendo al fine di agevolare l’associazione” (Cass., II, 4 marzo 1998, n. 1631). D’altra parte, l’associato ad organizzazione mafiosa “non deve, sempre e necessariamente, avvalersi della forza intimidatrice del vincolo mafioso, ovvero agire per fini propri dell’organizzazione”, non essendovi pertanto tra l’appartenenza ad associazione mafiosa e l’aggravante di cui all’art. 7 D.L. 152/1991, quella necessaria coincidenza che possa giustificare l’assorbimento dell’ambito di operatività di detta norma in quello dell’art. 416bis c.p. (Cass., I, 12 ottobre 1998, n. 2128; Id., I, 18 novembre 1998, n. 5711).

3.     Il metodo mafioso
Nel caso in esame, per quel che si evince dalla sentenza di legittimità, era in contestazione l’aggravante di tipo oggettivo dell’aver agito utilizzando il metodo mafioso. Occorre, allora, esporre in cosa esso consista.
Invero, un’organizzazione può qualificarsi di tipo mafioso allorché “coloro che ne fanno parte si avvalg[a]no della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva” (art. 416bis, comma 3, c.p.) per perseguire le finalità contemplate dal medesimo comma. È questo, per l’appunto, il metodo mafioso.

Esso si caratterizza:

La condizione di assoggettamento si sostanzia in quello stato di soggezione, di coartazione psicologica che, per la convinzione di essere esposti ad un concreto pericolo, induce gli estranei a sottostare ai voleri dell’associazione e convince gli associati dell’impossibilità di recedere dal vincolo, pena gravissimi atti di punizione.
L’omertà, a sua volta, è:
la reticenza, la tacita connivenza o la solidarietà che l’organizzazione mafiosa determina nell’ambiente sociale nel quale esercita la propria influenza (c.d. omertà esterna), che dà luogo al rifiuto di collaborare con gli organi dello Stato nella diffusa convinzione che tale collaborazione non impedirà ritorsioni in ragione della ramificazione dell’associazione, della sua efficienza, della sussistenza di altri soggetti non identificabili forniti del potere di recare pregiudizio a chi ha osato contrapporsi (Cass., n. 1612/2000, cit.);
l’atteggiamento di massima cautela adottato dagli adepti nel chiedere spiegazioni su determinati eventi concernenti le dinamiche interne dell’organizzazione criminale, nel subire le direttive ed eseguire remissivamente i compiti assegnati dai capi, nonché la reticenza a divulgare tra gli stessi affiliati notizie rilevanti per l’organizzazione (c.d. omertà interna).

4.     La decisione
Nel caso in esame, è stato ritenuto fondato il riferito motivo di impugnazione.
Il Giudice di legittimità:

A sostegno del proprio decisum, la Corte:

Dunque, ha disposto l’annullamento con rinvio della sentenza gravata con riferimento alla sussistenza a carico dei due prevenuti della aggravante de qua.

5.     Conclusioni
La pronuncia si inserisce nell’orientamento giurisprudenziale, più volte espresso dalla Corte di Cassazione anche di recente, secondo il quale:

In tale orizzonte ermeneutico – nel presupposto, di cui si è già dato conto, che l’aggravante in discorso possa accedere a un delitto commesso anche da un soggetto estraneo a una organizzazione di tipo mafioso – è stato pure osservato che:

 

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