di Eugenia Mottola
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L’avvento dell’era di internet ha comportato il sorgere di numerosi pericula gravanti su beni giuridici preesistenti, in uno con la possibile teorizzazione di nuove categorie di beni giuridici bisognosi di tutela. È chiaro come l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione di massa abbia comportato la necessità di ricercare un diverso approccio rispetto ai reati tradizionali che, attualmente, possono estrinsecarsi con modalità del tutto fuori dall’ordinario.
Nell’epoca della condivisione con un click, i rischi maggiori finiscono per ricadere inevitabilmente sulla riservatezza – quando non anche sull’onore – di chi subisca la diffusione priva di consenso di informazioni inerenti la propria persona.
In particolare, rispetto al trattamento di dati personali, il legislatore penale italiano ha predisposto una serie di tutele che trovano sede nell’ambito del Codice in materia di protezione dei dati personali (c.d. Codice della privacy). L’art. 167 del d.lgs. n. 196/2003 prevede, infatti, la particolare fattispecie di reato di “Trattamento illecito di dati”, tramite la quale viene approntata – oltre ad una specifica sanzione per la violazione di determinati articoli del Codice – la pena della reclusione da sei a ventiquattro mesi per coloro i quali procedano alla comunicazione o diffusione di dati personali, che rechino nocumento alla vittima.
Stando al disposto legislativo, dunque, la diffusione via web priva di consenso di immagini o video in cui figuri il dissenziente, potrebbe comportare la pena della reclusione fino a due anni, nel caso in cui dal fatto dovesse derivare nocumento. Nocumento che certamente si produce ogniqualvolta ad essere oggetto di diffusione priva di consenso via web siano immagini e video sessualmente espliciti, catturati in momenti di intimità. L’attività di condivisione illecita di tale materiale prende, in alcune circostanze, il nome di revenge porn: l’espressione, di origine anglosassone, sta ad indicare la pratica tramite la quale taluno – quasi sempre un ex compagno della vittima – diffonde via web, a scopo di vendetta in seguito generalmente a rifiuto o alla fine di una relazione, immagini esplicite di una donna ottenute in occasione di intimità. Si tratta, questa, stante appunto la percentuale maggioritaria di donne colpite, di una nuova forma di violenza di genere, figlia del nostro tempo e realizzabile unicamente tramite un mezzo tanto potente quanto pericoloso quale è internet, che permette l’irreversibile diffusione di dati in tempi rapidissimi, creando il fenomeno della “viralità” dei contenuti condivisi.
Ciò che preoccupa particolarmente è la progressiva diffusione di questa odiosa pratica, dimostrata da recenti episodi di cronaca che hanno impegnato il dibattito dell’opinione pubblica: inutile sul punto scomodare la memoria di Tiziana Cantone, morta suicida in seguito alla grave violazione della sua immagine ed assunta, suo malgrado, a testimonial della battaglia di civiltà contro la pornografia priva di consenso. La domanda che, a questo punto, occorre porsi è se la normativa sulla privacy contenuta nell’ambito del d.lgs. 196/2003 sia in grado di arginare il fenomeno in chiave general-preventiva e se sia, ad ogni modo, idonea a fornirne una adeguata risposta in senso sanzionatorio. D’altronde, è lo stesso legislatore ad apporre un accento sussidiario sull’applicazione dell’art. 167 del Codice della privacy, imponendone nell’incipit la clausola di riserva “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”.
Quale allora il più grave reato possibilmente configurantesi nell’ipotesi di comportamento illecito oggetto di analisi?
Sul punto, la Corte di Cassazione ha piuttosto chiarito il “limite minimo” del comportamento lesivo valutabile ai fini dell’applicazione dell’art. 167 del d.lgs. 196/2003, evidenziando come “il concetto di nocumento [richiesto ai fini della punibilità] è ben più ampio di quello di danno, volendo esso abbracciare qualsiasi effetto pregiudizievole che possa conseguire alla arbitraria condotta invasiva altrui”, potendo ricomprendere, pertanto, anche ipotesi di mera sofferenza psicologica piuttosto che patrimoniale.
Circa, invece, il “limite esterno” di applicabilità della norma summenzionata – che coincide con lo spazio operativo della clausola di riserva – sorgono maggiori perplessità. Vero è, infatti, che il Giudice di legittimità ha ritenuto configurarsi la più grave fattispecie di stalking nell’ipotesi dell’autore il quale inviava tramite strumenti informatici all’ex compagna e a soggetti a questa vicini foto intime che ritraevano la donna nuda o nel compiere atti sessuali, con l’esplicitazione della volontà di diffonderle pubblicamente; ma è chiaro che, ai fini della configurazione del delitto previsto e punito dall’art. 612 bis c.p. è necessario il verificarsi – come nel caso oggetto di analisi da parte della Suprema Corte – di condizioni tipiche ulteriori rispetto alla diffusione di immagini esplicite con annesso nocumento.
Ed allora, la risposta circa la fattispecie maggiormente idonea a contrastare il fenomeno del revenge porn – da considerarsi certamente “più grave” rispetto al mero trattamento illecito di dati – non può che essere fornita de iure condendo. Recentemente, infatti, è stata presentata in Parlamento una proposta di legge (n. 4055) tesa ad introdurre nel codice penale una fattispecie di reato ad hoc, in considerazione del fatto che “le leggi vigenti in Italia non riescono a contrastare adeguatamente il fenomeno dei video privati diffusi per vendetta: per questo serve una normativa adeguata al periodo storico che stiamo vivendo”. Tramite la predisposizione di un nuovo art. 612 ter c.p., rubricato “Diffusione di immagini e video sessualmente espliciti”, sarebbe pertanto specificamente sanzionata la condotta di “chiunque pubblica nella rete internet, senza l’espresso consenso delle persone interessate, immagini o video privati, comunque acquisiti o detenuti, realizzati in circostanze intime e contenenti immagini sessualmente esplicite, con conseguente diffusione di dati sensibili, con l’intento di causare un danno morale alla persona interessata”. Circa la sanzione applicabile, nell’ambito della proposta di legge è stata ipotizzata la pena della reclusione da uno a tre anni, aumentata della metà se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. L’intento dichiarato nella Relazione introduttiva alla proposta è quello di promuovere “il riconoscimento di questo reato al pari dell’estorsione, perché si configura come un grave delitto contro la privacy, oltre a essere un delitto di genere, perpetrato quasi esclusivamente nei confronti delle donne”.
Ciò posto, non può che salutarsi con favore la lodevole iniziativa portata avanti in Parlamento, seppur con le perplessità del caso.
Circa la costruzione normativa, appare apprezzabile la previsione dell’illecito come reato di pericolo piuttosto che di danno: non viene, infatti, richiesto per la configurazione del delitto che si verifichino in concreto tanto la apprensione da parte di una pluralità di utenti del materiale illecitamente diffuso, né tantomeno che si produca realmente il danno morale in capo alla vittima. L’anticipazione della soglia di punibilità permetterebbe pertanto di punire anche condotte che abbiano anche solo messo in pericolo il bene giuridico riservatezza/privacy, essendo bastevole ai fini dell’applicazione della sanzione la creazione – sempre intenzionale – di un danno morale solo potenziale.
Circa le prospettive sanzionatorie, la previsione della reclusione da uno a tre anni appare in linea rispetto alla comminatoria edittale “media” prevista (nell’ambito del Libro Secondo, Titolo XII, Capo III, Sezione III del Codice) per i delitti contro la libertà morale, nel cui contesto verrebbe calato l’art. 612 ter. Una pena detentiva che nel massimo arrivi a tre anni – o quattro anni e sei mesi nell’ipotesi aggravata prevista dal secondo comma del proposto art. 612 ter – non sembra affatto sproporzionata rispetto all’effettivo disvalore della condotta che s’intende reprimere; segno, questo, che da parte degli Autori della proposta di legge n. 4055 non vi è alcuna sottesa volontà di mettere in atto l’infelice quanto sensazionalistica tecnica della “punizione esemplare”.
Piuttosto, ciò che si spera venga chiarito durante i lavori parlamentari, è il profilo di sanzionabilità della condotta degli eventuali “condivisori” delle immagini diffuse dall’autore del reato. Ciò che rende il revenge porn tanto più grave e pericoloso è, infatti, la “viralità” della condivisione online che fa sì che la lesione della riservatezza della vittima sia amplificata fino ad irreversibili conseguenze. Per questo motivo, stante la difficile configurazione di un concorso nel reato a monte in ragione della particolare costruzione dell’art. 612 ter, che in effetti punta alla punizione della sola prima immissione nel web del materiale illecito, sembrerebbe necessaria l’esplicita previsione di una sanzione anche per coloro i quali procedano alla diffusione dei contenuti in seconda battuta, pur chiaramente dovendo fare i conti con un difficilmente dimostrabile dolo circa la conoscenza della mancanza di consenso a monte da parte della vittima. Tuttavia, solo la minaccia di una sanzione anche nel senso da ultimo illustrato – con la colpevolizzazione secondaria dei “diffusori” delle immagini sessualmente esplicite – appare effettivamente idonea a porre un freno in chiave preventiva alle conseguenze lesive derivanti dal revenge porn. ©
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di Eugenia Mottola (N. I_MMXVIII)
Legge 30 novembre 2017, n. 179 (GU Serie Generale n. 291 del 14-12-2017). Introdotta per la prima volta in Italia mediante la legge n. 190/2012, la tutela del whistleblower è stata oggetto di un importante e recente intervento di riforma tramite la legge n. 179/2017, la quale, oltre ad ampliare e specificare le garanzie per il “soffiatore di fischietto” nel settore pubblico, ha anche esteso le stesse al dipendente di imprese private dotate di modelli di organizzazione e gestione ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.