di Maria Laura Cantarelli
[vc_row] [vc_column width=”5/6″]Istituto Bruno Leoni – Indice delle liberalizzazioni 2013
L’Indice delle liberalizzazioni, presentato a Roma il 5 dicembre 2013 presso l’AGCM, è il rapporto annuale dell’Istituto Bruno Leoni sull’Indice delle liberalizzazioni ed indaga sul grado di apertura in nove settori dell’economia. L’Italia è il paese meno liberalizzato d’Europa, con riferimento ai 15 paesi presi ad esempio, con un risultato pari al 28%. In particolare questi sono i risultati per l’Italia settore per settore: carburanti (8%); gas (79%); lavoro (11%); elettricità (30%); telecomunicazioni (26%); televisione (0%); trasporto aereo (59%); trasporto ferroviario (36%); poste (2%).
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Liberalizzazioni: un argomento di cui si sente parlare spesso, talvolta come se fosse il peggiore di tutti i mali, ma senza dubbio un elemento fondamentale per lo sviluppo di un Paese. Se in momenti storici diversi il monopolio ha garantito il consolidamento di servizi di base, oggi più che mai risulta essere un freno assoluto per la crescita e la ripresa economica.
L’Italia continua ad essere un Paese dove le liberalizzazioni vanno a rilento, da un lato per le difficoltà riscontrate nel necessario ridimensionamento delle posizioni di monopolio e spesso per il timore che l’ingresso di realtà private possa risultare uno svantaggio a scapito della nazione intera.
In realtà, analizzando i dati, fino ad ora non è mai accaduto: telefonia ed energia elettrica sono, per citarne alcuni, settori che da quando liberalizzati, hanno permesso agli utenti di avere servizi migliori, più efficienti, a prezzi più bassi. Lo stesso processo virtuoso potrebbe esser sostenuto con i servizi postali, anche se nello specifico momento storico la situazione non è del tutto trasparente: nonostante il recepimento nel 2011 della terza Direttiva comunitaria sull’apertura alla concorrenza nel settore specifico, il comparto continua a non vedere un completo abbattimento delle barriere.
Da uno studio sul livello di liberalizzazioni presentato ad inizio dicembre all’AGCM dall’Istituto Bruno Leoni, che da anni si occupa di questo tipo di ricerche, si evince che in merito l’Italia è ancora lontana da una posizione di sufficienza, arrivando ad ottenere il penultimo posto tra i 15 Stati Membri considerati, con un punteggio pari a 2 su 100. Di peggio, solo il Lussemburgo. La Francia ha ottenuto un punteggio di 26, mentre le vicine Spagna e Germania arrivano ad una sufficienza, rispettivamente 58 e 68. “La liberalizzazione del settore postale in Italia è soltanto formale, non sostanziale- è stato il commento dell’istituto, rappresentato dal Direttore Ricerche Carlo Stagnaro – la quota di mercato degli operatori privati è bassissima, il servizio universale ha un perimetro molto ampio e non è pienamente contendibile”.
Non ne ha una visione tanto distante anche l’Autorità per la concorrenza e il mercato: “Secondo l’Antitrust esistono ancora norme di legge di favore per Poste Italiane che riducono la concorrenza, come l’esenzione IVA per i servizi sul mercato”, è il commento di Giovanni Pitruzzella, Presidente dell’AGCM. Questo equivale a dire che il nostro Paese è liberalizzato a metà rispetto all’Europa, anzi, meno. Eppure, in questa fase di difficoltà dell’economia, aprire il mercato potrebbe essere la strada per dare nuove opportunità di crescita al Paese e sostegno alle attività di e-commerce, fondamentali per il rilancio delle attività economiche.
La regolamentazione è quindi un asset fondamentale per creare condizioni di concorrenza effettiva in tutti i mercati che si aprono e nel nostro paese appare ancora fortemente condizionata al quadro costruito negli anni del monopolio. Nonostante l’eccellente percorso regolatorio intrapreso dall’AGCOM, non sono stati finora rimossi dal legislatore nazionale i vincoli che hanno costituito asimmetrie competitive fra l’ex monopolista e i concorrenti.
Vediamo nel dettaglio quali sono questi vincoli e cosa comportano per i competitor e per quanti volessero “svincolarsi” dai servizi del monopolista.
Innanzi tutto si è in presenza di un regime IVA applicato in modo del tutto asimmetrico, per cui il medesimo invio contenente ad esempio una bolletta di utility è soggetto ad IVA al 22% se il servizio di recapito è fornito da concorrenti privati, esente se recapitata in altre aree da Poste Italiane. Considerando l’ammontare della quota di mercato dell’ex monopolista, circa il 90%, l’applicazione dell’IVA ai prodotti business porterebbe anche un gettito aggiuntivo per le casse dello Stato, stimato in ambito accademico almeno in 300 milioni di euro annui. Germania, Olanda, Austria, Belgio, Finlandia e anche il Regno Unito considerano la c.d. posta massiva come negoziazione tra aziende e quindi assoggettabile a IVA. In Italia no.
La questione è ancora più incomprensibile in quanto con Sentenza della corte di giustizia europea del 23 aprile 2009 (causa C-357/07,) si è sancito un principio cardine in ambito UE e cioè che i servizi postali che possono essere negoziati individualmente tra aziende devono essere assoggettati all’imposizione sul valore aggiunto (quindi, anche per la posta massiva, che è giocoforza negoziata tra le parti, essendo un classico rapporto B2B).
Un altro limite importante alla libera competizione è dato dalla permanenza di una riserva legale, un’esclusiva, in favore dell’operatore dominante. L’art. 4 del Decreto 58/2011 stabilisce infatti che “per esigenze di ordine pubblico” devono essere riservati in via esclusiva al fornitore del servizio universale:
- “i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890”;
- “i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui all’articolo 201 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285”, quali le violazioni del codice della strada.
Si ritiene che il mantenimento della riserva legale per tali servizi, sia anzitutto in contrasto con l’art. 1, par. 8, della Direttiva e contrario alla realizzazione di un pieno confronto concorrenziale e secondo poi, assolutamente immotivato. Rileviamo infatti, che la Direttiva, nel disporre che “gli Stati membri non concedono, né mantengono in vigore diritti esclusivi per l’instaurazione di servizi postali”, in definitiva, obblighi gli Stati membri a liberalizzare tutti i servizi prima riservati per legge al fornitore del servizio universale senza prevedere eccezione alcuna. Pertanto, nonostante il Governo, nella Relazione Illustrativa al decreto n.58/2011, abbia ritenuto che l’art. 4 elimini “in conformità con l’art. 1, par. 8 della direttiva, la residua quota di monopolio prevista sino al 31 dicembre 2010 in favore del fornitore del servizio universale”, il mantenimento della riserva a favore di Poste sugli invii raccomandati aventi ad oggetto atti giudiziari e multe, è chiaramente incompatibile con l’art. 1, par. 8, della Direttiva stessa.
A ciò si aggiunga che né nel Decreto né nella Relazione Illustrativa vi è alcuna traccia dei motivi di ordine pubblico che potrebbero giustificare il mantenimento del monopolio legale sugli invii raccomandati aventi ad oggetto atti giudiziari e multe. Invero, la notifica postale è, di regola, sostituto della notifica di persona che avviene attraverso il c.d. messo notificatore. Già da tempo varie Pubbliche Amministrazioni hanno posto a gara i servizi di notifica attraverso messo notificatore all’interno del territorio comunale, ritenendo quindi che gli operatori alternativi a Poste siano altrettanto affidabili ed economicamente sostenibili. Non si comprende pertanto quale possa essere il motivo di ordine pubblico che giustifichi il mantenimento della riserva legale per gli invii raccomandati di atti giudiziari e multe. Nonostante questo, l’invio di multe e notifiche giudiziarie sono quindi monopolio del fornitore del servizio universale. Risultato? Un cittadino paga circa 11 euro per una sorta di “raccomandata” mentre a prezzo di mercato ne vale 6.
Un altro aspetto fondamentale è il profitto generato da un altro settore (Bancoposta) che consente all’operatore dominante di concludere accordi a prezzi di gran lunga inferiori ai costi sostenuti (prezzi predatori) che si aggiunge a un sistema di trasferimenti pubblici (pagati dal contribuente) che copre le inefficienze del servizio universale. Infine l’invio di alcuni prodotti (in particolare quelli editoriali) che godevano sostanzialmente di sussidi pubblici oggi divenuti incompatibili con le stringenti necessità di contenimento e riduzione della spesa pubblica richiesta dall’Unione Europea, inviati con tariffe che non coprono neanche i costi variabili.
La prima conseguenza macroscopica di quanto descritto risulta essere la mancata riduzione generalizzata dei prezzi, fenomeno tipico dell’apertura del mercato e un sostanziale mantenimento di scarsi livelli di qualità. Con questo però non si vuole dire che la liberalizzazione non porterà benefici avvertibili per i grandi clienti. Anzi, paradossalmente proprio i vincoli possono trasformarsi in opportunità, perché l’elemento chiave di generazione dei benefici è la flessibilità. Ad esempio, la possibilità di legare i contratti fra fornitore postale e cliente attraverso un accordo che definisce con esattezza le prestazioni richieste, ritagliate sulle sue specifiche esigenze (i Service Level Agreement, o SLA) è lo strumento con cui il mercato si svilupperà nei prossimi anni. In Italia, questo mercato soffre di ingessature normative e di una serie di asimmetrie legislative che ne stanno compromettendo lo sviluppo e la normale concorrenza, a scapito degli utenti-consumatori e quindi aziende, PA e cittadini finali. L’effetto complessivo di una riforma liberale del settore sarebbe un efficientamento del mercato dei servizi postali: maggiori possibilità di scelta, prezzi più bassi e concorrenza sulla qualità dei servizi proposti ai clienti. ©
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