del Col. Michele Lippiello e dell’avv. Elisa Malangone
Tra le tante e rapidissime trasformazioni che caratterizzano la società attuale emergono anche nuove modalità di esercitare la violenza: lo zoombombing, un modo per attaccare associazioni, convegni e incontri con l’uso di accessi fraudolenti, portatori di insulti, disturbi sonori e immagini volgari; il cyberstalking, lo stalking realizzato attraverso ripetuti atti, perpetrati dalla stessa persona, svolto con il ricorso a piattaforme di messaggistica quali whatsApp o Telegram; il Deepfake e DeepNude che attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale rielabora immagini o video ritraenti persone reali al fine di trasformarli in materiali multimediali a carattere pornografico, falso ma altamente realistico.
Nel precedente numero: 1. Cyberstalking, 2. Molestie online e zoombombing, 3. Deepfake e DeepNude. In questo numero: 4. Sextortion, 5. Azioni di contrasto e risposte legislative, 6. Considerazioni finali.
4. Sextortion
La sextortion (dall’inglese “sexual” ed “extortion”) ovvero l’estorsione sessuale, raggruppa una serie di condotte estorsive, perpetrate attraverso la rete, caratterizzate dalla minaccia di diffondere immagini o video sessualmente espliciti che ritraggono la vittima, al fine di ottenere qualcosa da quest’ultima. La particolarità della sextortion risiede nel fatto che la pubblicazione dei contenuti sessuali e pornografici non è unicamente diretta a umiliare e offendere la vittima, ma strettamente collegata alla coartazione della volontà di quest’ultima al fine di estorcerle, nella maggior parte dei casi, del denaro (spesso in moneta digitale, c.d. bitcoin). E’ frequente che l’estorsore faccia leva sulla vulnerabilità e sui punti deboli della vittima, conosciuti e pertanto amplificati grazie a un eventuale preesistente rapporto con la stessa, dando così maggior concretezza alla minaccia.
Nonostante la sua notevole diffusione, a oggi purtroppo il fenomeno della sextortion rimane sommerso e sottostimato a causa delle difficoltà delle vittime nel rivelare gli abusi, per un irragionevole senso di colpa per le violenze subite, per insopprimibili sentimenti di vergogna e umiliazione che rendono ardua la denuncia dei fatti.
Dal punto di vista giuridico nel nostro ordinamento non esiste un vero e proprio reato di “estorsione sessuale” e la normativa potenzialmente applicabile non risulta adeguata a fronteggiare il fenomeno, neppure la fattispecie di cui all’art. 612 ter c.p., il c.d. Revenge Porn, sicuramente affine ma non sovrapponibile a quella in esame. Non è previsto infatti l’elemento della coartazione della volontà della vittima, tipico dell’estorsione.
Purtroppo, neanche la fattispecie di estorsione di cui all’art. 629 c.p. risulta applicabile al fenomeno della sextortion, tenuto conto che nella richiamata casistica penale si incrimina il comportamento di “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”. Si deve altresì rilevare che la giurisprudenza è comunque ormai unanime nel sostenere che il danno procurato dall’estorsore deve avere carattere patrimoniale, sicché il reato in esame non si configura nel caso in cui l’estorsore medesimo richieda alla vittima l’invio di ulteriore materiale pornografico per appagare il proprio istinto sessuale.
Al contrario, in talune circostanze, si è reso applicabile il delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p. in quanto, pur in mancanza di contatto fisico tra autore e vittima, la condotta tenuta ha concretizzato l’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e l’idoneità di quel comportamento a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale.
In definitiva, è evidente l’assenza di una disciplina unitaria, calibrata sulle fattispecie possibili, idonea a definire e circoscrivere le condotte penalmente rilevanti e ad assicurare una tutela adeguata per le vittime di questi reati, tanto preziosa anche ad agevolare il percorso di una coraggiosa denuncia.
La prima e principale difesa per chi si riconosce vittima di una forma di sextortion, consiste nel “bloccare” l’aggressore e segnalare, sul social network utilizzato, il profilo dell’estorsore avvisando in pari tempo il centro assistenza di riferimento. All’indagine saranno utili tutti i diversi elementi che riconducono all’identità dell’estorsore, anche attraverso indirizzi IP, senza cedere al ricatto.
La denuncia, soprattutto, è sempre consigliata per tutelarsi in caso di pubblicazioni su domini e siti per adulti e per permettere alle forze dell’ordine di ottenere informazioni e dati anche per eventuali operazioni congiunte di polizia internazionale; altro consiglio utile è quello di salvare prove testimoniali quali screenshot (immagini dello schermo) delle conversazioni, sicuramente preziose per le indagini delle forze dell’ordine.
Alla luce di quanto detto occorre prendere atto che le c.d. TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione), smartphone, social network e Internet in primo luogo, possono essere sfruttate per esasperare condotte violente già esistenti, delineando un quadro piuttosto inquietante dalle diverse e subdole declinazioni. È risaputo infatti che in rete sono presenti gruppi, chat, forum e siti che incitano alla violenza contro la donne, alimentando un circuito fondato sull’odio e su sentimenti sessisti di disprezzo. D’altronde la stessa configurazione del web, con la possibilità per gli utenti di formare spazi chiusi in cui sentirsi liberi e protetti dall’anonimato, rappresenterebbe di per sé un rischio per l’esasperazione dei sentimenti di risentimento e odio, così come sostengono alcune ricerche.
5. Azioni di contrasto e risposte legislative
Uno studio sulla violenza informatica di genere condotto dall’Unità Valore Aggiunto Europeo (Eava) del Servizio Ricerca del Parlamento Europeo, ha preso atto che tale sgradevole fenomeno è fortemente orientato e crescente, come si registra in modo omogeno nei dati trans-nazionali.
Secondo diverse fonti, la violenza di genere online è un fenomeno che, nel mondo, riguarda una donna su tre, mentre in Europa ha colpito circa 9 milioni di donne. Come si è fatto cenno più sopra, sussiste una forte correlazione tra la violenza di genere in rete e quella nella vita reale, ovvero reati online e reati offline; in molti casi i due tipi di violenza si compenetrano e agiscono congiuntamente sul vissuto delle vittime, con profonde e indelebili lacerazioni nella loro vita, sia sul piano emotivo che fisico.
L’accresciuta consapevolezza di questo degradante fenomeno e che tanto avvilisce la società ha comunque prodotto un corpus normativo, anche internazionale, finalizzato a contrastare ogni forma di violenza contro le donne con strumenti sia di prevenzione che di repressione di tali odiose condotte. La “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” del Consiglio d’Europa (c.d. Convenzione di Istanbul, 2011) è ad oggi “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza”. A tal riguardo, l’art. 3 della stessa Convenzione qualifica la violenza contro le donne come “qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”: una definizione che sembra poter assorbire anche le nuove forme di violenza e di odio negli spazi digitali.
Tuttavia, non è sempre facile individuare e sanzionare la violenza digitale, soprattutto nel caso della violenza verbale, quando è più arduo stabilire il confine tra l’ingiuria, da condannare, e la libera espressione, da tutelare. I problemi emergono soprattutto con riferimento alla responsabilità dell’Internet Service Provider, dei Social Network e dei motori di ricerca, rispetto ai contenuti pubblicati. Su tale punto la Direttiva Europea sul commercio elettronico (2000/31/CE), recepita nel nostro ordinamento con il d. Lgs. 70/2003, individua una responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. in capo al provider escludendo in ogni caso un obbligo di sorveglianza e fermo restando la possibilità per le autorità giudiziarie di richiedere allo stesso provider di inibire i contenuti illeciti. A tal proposito sono emersi dei principi autoregolatori con cui i principali Internet Provider mirano a contrastare la violenza verbale e i discorsi di odio nei confronti degli individui e tanto spesso delle donne. È il caso di Facebook, ad esempio, che ha introdotto una policy finalizzata a contrastare la violenza e i comportamenti criminali grazie anche alle segnalazioni degli stessi utenti. Anche in questo caso ci rivolgiamo ai contenuti della già richiamata legge 19 luglio 2019, n. 69, meglio nota come “Codice Rosso”, normativa che ha introdotto nel nostro ordinamento significative “modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere”.
Con tale disciplina, oltre alla previsione delle circostanze aggravanti e delle modifiche procedurali agevolanti, si è voluto disegnare quattro “macro aree” di reato che riguardano la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi della potenziale vittima, il contrasto dei matrimoni forzati e delle spose bambine, l’aggressione finalizzata a lesioni permanenti del viso e, tra quelle che più ci interessano nel presente contesto, la norma che investe la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, cosiddetto revenge porn (art. 612-ter c.p.), e che punisce, chi “dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde, immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”. Come si è avuto già modo di fare cenno, la stessa pena si applica anche nei confronti degli eventuali condivisori che, avendo ricevuto o acquisito le immagini, le diffondano al fine di creare danno alle vittime. Peraltro, aggravanti specifiche sono previste se il reato viene commesso all’interno di una relazione affettiva, se vengono usati strumenti informatici e se i fatti vengono commessi nei confronti di soggetti in stato di inferiorità fisica o psichica.
L’inasprimento delle pene e l’introduzione delle circostanze aggravanti, così come l’innalzamento delle cornici edittali, rispondendo ad una logica prevalentemente retributiva, rappresenta senz’altro un deterrente per i soggetti attivi del reato e si rende necessario come tentativo di restituire un senso di giustizia alle vittime. D’altronde, al contempo, è quantomeno lecito considerare che tali misure non possano risultare pienamente determinanti nell’affrontare i nuovi comportamenti devianti laddove non siano accompagnate prioritariamente anche da quella piena protezione e fiducia che le donne vittime di reato si aspettano dalle Istituzioni e da interventi in termini di prevenzione.
Per questo motivo devono essere adottate strategie educative e di supporto alla luce dei nuovi scenari di riferimento, considerando sempre la volatilità gli ambienti digitali e la loro rapidissima evoluzione, trattandosi non solo di semplici strumenti di comunicazione ma piuttosto delle nuove frontiere dove vengono ricodificate le dinamiche relazionali e sociali.
L’esigenza della norma di “stare al passo” con quanto di straordinario avviene, nel bene e nel male, nella società, di percepire certi fenomeni e certi effetti perversi, si intravede ad esempio proprio in quella sub-cultura legata alle nuove forme aggregative capace di far nascere atteggiamenti sclerotici presso alcuni individui, quelli indicati come “Incel”, ovvero celibi involontari, uomini eterosessuali intensamente frustrati per l’incapacità di costruire delle relazioni sociali e affettive a causa, secondo le loro imbarazzanti convinzioni, del comportamento scorretto delle donne. Presso questi raggruppamenti è facile scadere in un linguaggio intriso di misoginia, dove le donne vengono svilite e deumanizzate, fino ad essere definite paurose “umanoidi femmine”, “da sterminare”.
È importante quindi che si svolga una piena collaborazione inter-istituzionale tra scuola, centri antiviolenza, strutture sanitarie, servizi sociali e altre agenzie al fine di porre in essere una organica sensibilizzazione delle nuove generazioni di “nativi digitali” all’uso responsabile delle tecnologie, il tutto con l’orizzonte progettuale dello sviluppo di una reale cultura contro le diverse forme di discriminazione e violenza di genere.
La vicinanza alla vittima, invece, deve andare oltre l’affiancamento burocratico, per non rendere ancora più gravosa la solitudine che purtroppo inevitabilmente accompagnerà la sua esperienza nei meandri del percorso processuale. E’ per questa ragione che le ultime norme in materia di violenza di genere, sia in ambito europeo che nazionale, come lo stesso Codice Rosso, insistono sulla specializzazione degli operatori chiamati ad affrontare questo tipo di reati. E’ assolutamente necessario infatti che, sin dal primo momento in cui avviene il contatto delle istituzioni con la vittima, la stessa si senta supportata da persone competenti in grado di ascoltarla, di accogliere il suo momenti di fragilità, con preparazione e rispetto, senza pregiudizi.
La vittima deve sapere di potersi fidare delle istituzioni, così da convincersi a denunciare e a sostenere l’iter processuale contro il suo aggressore. La peggiore condizione che si prospetta alla vittima, nemmeno così raramente, è quella di confrontarsi con un ribaltamento del suo status, ovvero di subire lo stigma per le sue azioni, l’avviamento verso una sorta di gogna sociale o mediatica per aver trovato il coraggio di denunciare o per essersi fidata di uno sconosciuto, di un partner o di un ex. Si tratta effettivamente di una forma di vittimizzazione secondaria.
L’esperienza e i fatti di cronaca ci insegnano purtroppo che il disagio emotivo vissuto dalle donne vittime di violenza reale e virtuale è spesso accompagnato da ulteriori umiliazioni, ovvero di essere giudicate e additate come corresponsabili se non addirittura come causa delle stesse.
Ecco perché è opportuno tessere da subito una rete supportiva (e auspicabilmente preventiva) nei confronti della vittima, in considerazione del fatto che quanto più la condotta violenta subita insinua i suoi effetti psicologici tossici, tanto più viene ritardato il momento della presa di coscienza, procrastinando così il momento della “denuncia”, quando poi non diventa “rinuncia”.
La persona offesa dai reati di violenza sessuale, molestie, cyberstalking porta con sé un vissuto doloroso, traumatico, che diventa per sempre insuperabile quando tra la vittima e il carnefice si era instaurato un rapporto di fiducia, complicità o seduzione. In questi casi la decisione di sporgere denuncia può rappresentare un vero e proprio atto di sovrumano coraggio, in molti casi frutto di una lotta con i propri sensi di colpa e con la paura di non essere creduta. Sono queste dinamiche emotive che gli operatori del diritto non solo dovrebbero tenere in debito conto, ma che rappresentano motivo di stimolo a un accrescimento professionale e personale, per poterle affrontare in maniera adeguata, competente e con la giusta sensibilità.
6. Considerazioni finali
Al termine di queste brevi annotazioni si deve osservare, senza timori di smentite, che la rivoluzione digitale ha avuto un impatto notevole sulla nostra quotidianità, tanto di buono e di utile realizzando per ciascuno di noi, così come, con uguale impegno, si è voluto accompagnare a impensabili distorsioni e malevole applicazioni.
Ma più ancora stupisce il male, quando realizza la discriminazione, offende la ragione e dimentica il rispetto.
Sovviene allora la legge, casa del giusto, il rifugio della parte più debole, della vittima.
Non è senza soddisfazione che passiamo allora ad annotare proprio in queste ultime righe una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione n. 25266 (8 settembre 2020) con la quale è stato chiarito, ancora una volta, come sia possibile parlare di violenza sessuale anche quando manca il contatto fisico o quando le persone coinvolte siano fisicamente distanti. La Suprema Corte ha riconosciuto, in accordo con quanto già deciso dal giudice del riesame, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza del reato contestato nell’induzione allo scambio di foto erotiche e nella crescente minaccia a divulgare in pubblico le chat.
La pronuncia in parola riprende infatti una precedente sentenza dove veniva affermato che, nella violenza commessa mediante strumenti telematici, la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non costituisce circostanza attenuante del fatto di minore gravità. La lontananza fisica quindi non può alleggerire la condotta dell’autore che, costringendo la vittima a spogliarsi, pone in essere un atto sessuale che coinvolge la corporeità della persona offesa, compromettendo di fatto il bene primario della libertà individuale per il quale pertanto rileva l’art. 609 bis c.p.
Resta tuttavia il rammarico delle persistenti aree normative ancora indefinite, poco uniformi e prive di un efficace coordinamento con le discipline sovranazionali. E se la puntualità della norma è indispensabile, non meno prezioso è il concorso delle forze di polizia, delle istituzioni educative, dell’associazionismo e del volontariato, al fine di assicurare la vigilanza, le forme di prevenzione, e ogni altra azione per realizzare quella crescita culturale dell’intera collettività, che è il vero antidoto capace di allontanare il veleno e la viltà dell’odio verso le donne. La prevenzione della violenza di genere parte dalla promozione tra gli adolescenti di comportamenti responsabili nell’uso degli strumenti digitali, per il tramite delle famiglie, la frequenza delle scuole, la buona stampa e i luoghi della formazione e della preparazione scientifica.©
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