di Francesco Angelone
[vc_row] L’art. 4 della Legge n.43 del 2015 ha introdotto misure di prevenzione dalla portata dirompente rispetto al previgente quadro normativo, non solo estendendo la cornice dei poteri di intervento riconosciuti al Giudice sia nella fase preliminare che nella successiva ed eventuale sede processuale, ma allargando le maglie applicative delle previsioni esistenti anche ai soggetti accusati di crimini commessi per agevolare lo sviluppo e la crescita delle organizzazioni terroristiche anche su scala internazionale.
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Una delle problematiche maggiori degli attuali governi europei è rappresentata dall’ampliarsi del fenomeno migratorio, di fronte al quale può ritenersi insufficiente la risposta normativa sotto il profilo dell’accoglienza e dell’integrazione sociale, prima che giuridica.
L’impegno profuso dai governi, pertanto, si sta dimostrando insufficiente a favorire lo sviluppo di una integrazione sociale nella nuova società multietnica, ove convivono una pluralità di culture, religiose e non, che spesso si scontrano sia con i valori fondanti la comunità ospitante che coi principi ordinamentali che la governano.
Tale problema, ad esempio, ha interessato la giurisprudenza italiana ai massimi concessi con riguardo alla possibile configurabilità della cosiddetta scriminante culturale. In particolare, i giudici nazionali sono stati chiamati ripetutamente a sindacare sull’ammissibilità rectius “giustificabilità” di un comportamento (come lo sfruttamento minorile nella attività di accattonaggio della cultura nomade, la pratica dell’infibulazione, il porto del kirbah e del coltello indiano fuori dalla propria abitazione) considerato illecito nel nostro ordinamento.
In tale contesto ordinamentale si innesca il fenomeno del terrorismo internazionale sub specie di terrorismo islamico, ove la cultura religiosa del pensiero fondamentalista islamico del popolo arabo funge da presupposto ideologico per il compimento di atti di inaudita violenza e minaccia.
Indubbiamente il Legislatore italiano, sulla scorta delle direttive impartite sul piano sovranazionale, ha approntato misure di prevenzione e repressione del fenomeno terroristico, unitamente all’introduzione di fattispecie di reato in cui il sistema di elevata anticipazione della tutela (cosiddetti Delitti di attentato) costituisce l’antefatto di una adeguata ed efficace risposta punitiva.
In tale ottica preventiva si inseriscono le nuove fattispecie incriminatrici dell’addestramento e del proselitismo condotti con ogni forma verbale e/o scritta, ricorrendo all’uso distorto di social network, canali web e predisposizione di corsi formativi de visu.
Tale meccanismi, invero, sono finalizzati al reclutamento di cadetti che, convertendosi all’Islam e subendo una vera e propria manipolazione della struttura mentale, si affiliano all’Isis e si fanno promotori della cultura dell’odio e della violenza.
Tale valutazione prospettica ha condotto al ricorso alla cosiddetta de-radicalizzazione, per essa intendendosi un percorso rieducativo guidato verso l’esperienza religiosa islamica, condotto con l’ausilio di un Imam, per comprendere le reali radici di tale credo religioso e consentire al soggetto riabilitando di rifuggire consapevolmente da ogni logica ed uso distorti della religione islamica e dei suoi precetti comportamentali.
La soluzione ora rappresentata, tuttavia, fornisce interessanti spunti di riflessione in ordine alla compatibilità di tale sistema di catechismo religioso con il principio di laicità degli Stati occidentali, tenuto conto del fatto che l’esperienza insegna che i soggetti che scelgono di essere inseriti nella compagine terroristica dell’organizzazione internazionale non sempre sono spinti dal credo religioso, piuttosto scegliendo di entrare in tale tessuto delinquenziale per la naturale e patologica predisposizione alla violenza, all’odio e alle armi oltre che per la prospettiva di facili guadagni, secondo il disegno tipico del “soldato mercenario”.
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