di Annalisa Imparato e Gianluca Luchena
Dodici giorni! Tanto è servito a Teheran per organizzare e lanciare una massiccia offensiva verso Israele, dopo che il 1° aprile scorso Tel Aviv aveva perpetrato un attacco contro un edificio dell’ambasciata iraniana, nel quartiere Mezzeh a Damasco in Siria, durante il quale erano rimaste uccise 16 persone, tra cui il generale Mohamed Reza Zahedi. Non un militare qualsiasi, ma una figura di primo piano del Corpo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, già comandante dell’Aeronautica e dell’Esercito Iraniano. Nel 1998 è stato nominato capo del corpo libanese da un certo Qasem Soleimani, oggi eroe nazionale iraniano e, ai tempi, Comandante delle Forza Quds, nonché vittima di un attacco missilistico in Siria nel 2020, ordinato dall’allora presidente degli Stati Uniti d’America.
Nonostante prima della notte del 13 aprile vi fosse stata una forte mobilitazione diplomatica internazionale per scongiurare l’azione militare iraniana[1], i servizi informativi di tutte le principali potenze occidentali avevano indicato con allarmante determinazione che un attacco era nell’aria. Ciò per vari motivi. Teheran, circa 72 ore prima dell’attacco, aveva allertato i Paesi vicini e amici della Regione[2]. I sofisticati sistemi di intelligence israeliani – e non solo – dotati di tecnologici apparati space-based (satelliti con sensori ottici e radar) in grado di osservare finanche il più piccolo movimento di sistemi d’arma e mezzi militari sul suolo, rilevavano un certo fermento nel Paese. In ultimo, una questione di semplice analisi geopolitica, riassumibile nelle parole “credibilità” e “consenso”, portava chiaramente ad aspettarsi una imminente retaliation iraniana.
Teheran, potenza regionale e attore di rilievo dell’area medio-orientale, non poteva permettersi di farsi vedere titubante e debole sia verso l’esterno sia all’interno dei suoi confini nazionali, in una fase cruciale e molto delicata in cui sono in gioco le sorti dell’intera area, divenuta incandescente a seguito del conflitto tra Israele e Hamas.
La teocrazia iraniana sa bene quanto sia importante il consenso della sua popolazione per darsi una parvenza di legittimità e mandare un messaggio alla comunità internazionale. E le cose, a tal proposito, non sono propriamente rassicuranti. A 45 anni dalla rivoluzione del 1979 che rovesciò il regime dittatoriale dello Shah, la tenuta interna della Repubblica islamica sembra tutt’altro che al sicuro, a causa di un crescente malcontento della popolazione che ha raggiunto un picco massimo con la morte Mahsa Amini, la giovane curdo iraniana fermata dalla “polizia morale” perché non portava il velo in modo appropriato e percossa a morte in carcere il 16 settembre del 2022. L’episodio è stata la scintilla che ha dato il via a una stagione di grandi proteste in tutto il Paese, noto come la “crisi del velo”, con migliaia di donne in prima fila che hanno creato enormi difficoltà al regime, che ha faticato non poco per reprimere le manifestazioni[3] e ristabilire l’ordine interno. Il boicottaggio del voto in occasione delle doppie elezioni del 1 marzo 2024[4], con un’affluenza record in negativo pari al 41%, rappresenta a tal proposito un atto di protesta silenzioso e un chiaro segno di insofferenza e distanza da parte degli iraniani.
Non era il momento, pertanto, di abbozzare, di lasciar correre. Occorreva mostrarsi solidi e pronti. Per questo un po’ dappertutto ci si aspettava quella che gli stessi vertici militari iraniani hanno poi denominato operazione ‘Vadeh Sadegh’, cioè “Vera promessa”, quale appunto “punizione promessa” nei confronti di quello che la Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei, nel discorso pronunciato in occasione dell’Eid al-Fitr, la festa di fine Ramadan, dichiarava “il regime malvagio”, con riferimento all’attacco condotto al consolato iraniano a Damasco.
A proposito del citato attacco, che pare abbia portato in 5 ore al lancio di 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici[5] occorre però fare delle precisazioni e delle riflessioni, in quanto la tipologia di armamento scelto e le modalità con cui l’attacco è stato coinvolto, suggeriscono quale sia stata la reale intenzione di Teheran e quale al contempo sia l’outcome sperato.
L’Iran, infatti, non ha utilizzato i sistemi più performanti e letali del suo arsenale[6]. Ha prediletto, invece, un attacco di tipo swarm, ossia a sciame, con il lancio simultaneo di centinaia delle c.d. loitering munition, ossia velivoli e pilotaggio remoto dotati di payload esplosivo, in grado di raggiungere l’obiettivo, volteggiare su di esso fino alla conferma del target, per poi precipitare sullo stesso esplodendo e distruggendolo. Sono infatti anche noti, in modo più popolare, come droni kamikaze, proprio per il fatto che la loro missione termina con l’autodistruzione sul bersaglio prescelto e/o preimpostato. Tra questi, vi sono gli “Shahed 136”. Letteralmente “testimone”, sono divenuti noti all’opinione pubblica in quanto utilizzati dalla Russia (con il nome di Geran-2) in taluni attacchi rivolti all’Ucraina, oltre che dagli Houthi per attaccare i mercantili in transito nello stretto di Bab al-Mandab. Si tratta di un sistema d’arma progettato dall’azienda aeronautica iraniana Shahed (da cui prende il nome) e costruito dalla Iran Aircraft Manufacturing Industries Corporation (HESA). Pesante circa 200 kg, di cui 40 costituiti dall’esplosivo trasportato, è in grado di volare per circa 2.500 km a una velocità massima di 185 km/h e ad una quota molto bassa per eludere i sistemi radar avversari, raggiungendo la propria destinazione anche attraverso coordinate GPS introdotte prima del lancio, per poi schiantarsi sull’obiettivo.
Ora, i droni utilizzati, sono mezzi relativamente lenti, che per raggiungere lo stato ebraico (distante nel punto più vicino all’Iran circa 1.700 km) hanno impiegato alcune ore, consentendo ad Israele, dotato di uno dei più sofisticati, efficaci ed evoluti sistemi di difesa aerea – cosa questa ben nota a tutti, soprattutto agli iraniani – di intercettare, seguire e neutralizzare la quasi totalità degli stessi. Noto con l’acronimo IMDO, che sta per Israel’s Missile Defense Organization, tale formidabile sistema è concepito a strati e, come in una cipolla, prevede diversi sistemi, tutti interconnessi tra loro, che servono a proteggere il territorio da minacce a corto, medio e lungo raggio. Si tratta di tecnologie altamente sofisticate, che rappresentano il non plus ultra nello specifico settore e di cui solo pochissimi Paesi al mondo sono dotati. Per intenderci, tali sistemi rientrano tra quelli fortemente richiesti dal presidente Volodymyr Zelens’kyj in Ucraina, per difendersi dagli attacchi missilistici russi. L’architettura di difesa, che ha consentito di neutralizzare, secondo le fonti israeliane, il 99% degli attacchi – anche grazie all’ausilio delle navi e degli aerei militari della Marina degli Stati Uniti e inglese – è composta, partendo dal corto raggio dal famoso sistema “Iron Dome”, progettato per la difesa di punto, come una base o una città. Ogni batteria Iron Dome è dotata di un radar che rileva i razzi/missili e utilizza un sistema di comando e controllo associato ad un calcolatore che effettua una sorta di discernimento, verificando in moto automatico ed estremamente veloce se la minaccia in arrivo rappresenta un pericolo per l’area da proteggere o è probabile che colpisca un’area disabitata. Qualora il razzo rappresenti una minaccia, l’Iron Dome lo ingaggia da terra con i missili di cui è dotato (attuatori) per distruggerlo in aria ed evitare che faccia quindi danni. Il gradino successivo della scala della difesa missilistica è rappresentato dalla c.d. David’s Sling (la fionda di Davide), che protegge dalle minacce a corto e medio raggio grazie al lavoro dei sistemi di origine americana “Patriot”, in grado di sventare non solo minacce ABT (Air Breathing Threat) ossia quelle derivanti da sistemi che operano nell’atmosfera terrestre e utilizzano l’aria per la propulsione (come missili, razzi, velivoli, elicotteri, ecc.), ma anche di tipo balistico (BMD – Ballistic Missile Defense)[7]. L’ultimo strato, il più sofisticato, è rappresentato dai sistemi Arrow-2/Arrow-3 che consentono la protezione BMD “higher layer”. Si tratta di sistemi talmente all’avanguardia che utilizzano la tecnologia hit-to-kill per intercettare i missili balistici già nello spazio, prima che rientrino nell’atmosfera mentre si dirigono verso gli obiettivi. Questa incredibile architettura difensiva, unitamente ai modernissimi F35, aeroplani di 5^ generazione dotati di tecnologia stealth, in grado da fungere da hub avanzato di comando e controllo e di penetrare le bolle A2AD[8] nemiche, intercettando e distruggendo droni e missili da crociera, hanno consentito di proteggere Israele dall’attacco iraniano della notte del 13 aprile.
I danni più evidenti sono stati causati proprio dai missili balistici che, lanciati in modo concomitante a missili da crociera e loitering munition, hanno colpito superficialmente alcune infrastrutture della base aeronautica di Nevatim, nel centro del Paese.
L’uso di una simile tipologia di attacco, quindi, a quasi due settimane dalle vicende in Siria, non pare essere una scelta impulsiva ma, al contrario, sembra essere un’opzione ragionata e “obbligata” per dare un importante segnale sia all’interno del paese sia all’esterno, mantenendo tuttavia un profilo basso e una portata circoscritta, senza indurre Israele e i suoi alleati a ritenere di dover rispondere.
Secondo alcune fonti ci sarebbero state interlocuzioni tra Cia e Iran in cui Teheran avrebbe palesato l’intenzione di procedere ad un’azione relativamente contenuta, non sufficiente per provocare un’escalation del conflitto.
Lo si capisce anche dalla comunicazione dei leader iraniani. A Teheran, si è subito parlato di grande successo dell’operazione militare, mentre la rappresentanza iraniana all’Onu con l’ambasciatore Saed Iravani si affrettava a dichiarare “chiusa così” la questione. Certo, è stata anche minacciata una risposta più dura, “qualora Israele commettesse un nuovo errore” ma il messaggio vero, forte e chiaro era già stato mandato.
Non vi è, dunque, da parte iraniana, una volontà di proseguire negli scontri. Anche l’intera comunità internazionale getta acqua sul fuoco, con gli USA che fanno sapere che non sosterranno un eventuale contrattacco israeliano contro l’Iran[9]. Lo stesso governo italiano lavora incessantemente per ridurre la tensione e impedire ulteriori accelerazioni verso lo scontro. L’unica variabile, però, che per ora sembra poco controllabile e che desta enorme preoccupazione è quella israeliana, con il portavoce dell’esercito israeliano, Kamal Penhasi, che in un messaggio in farsi pubblicato sul sito dell’opposizione iraniana dichiara: “Risponderemo all’Iran con azioni, non con parole”. Ci vorrà dunque un grosso sforzo diplomatico e una grande azione persuasiva da parte degli Stati Uniti per impedire un allargamento del fronte nel Medio-Oriente che potrebbe innescare una pericolosa reazione a catena.
[1] Subito dopo l’attacco missilistico in Siria, il governo italiano aveva fermamente condannato l’attacco israeliano, manifestando una forte preoccupazione per l’ulteriore destabilizzazione della regione e invocando –anche dallo scanno della presidenza del G7 – ogni sforzo per evitare escalation.
[2] Così ha dichiarato lo stesso Hossein Amir-Abdollahian, ministro degli affari esteri dell’Iran.
[3] Si parla di più di 20.000 arresti e centinaia di condanne a morte.
[4] Si è votato per rinnovare i 290 membri del Parlamento, formalmente noto come Assemblea consultiva islamica, e gli 88 membri (mujtahid) dell’Assemblea degli esperti, il comitato di esponenti religiosi, che resta in carica per otto anni ed ha un compito fondamentale: selezionare un nuovo leader supremo
[5] Fonte Avichay Adraee, portavoce dell’esercito israeliano.
[6] L’Iran possiede «uno dei più grossi arsenali di droni e missili di tutto il Medio Oriente», ha detto al New York Times l’esperto Afshon Ostovar, e più in generale uno dei più grandi eserciti della regione.
[7] Progetto congiunto dell’israeliana Rafael Advanced Defense System e del gigante della difesa statunitense Raytheon, utilizza intercettori cinetici hit-to-kill “Stunner” e “SkyCeptor” per eliminare bersagli fino a 186 miglia di distanza.
[8] Anti-Access/Area Denial
[9] Fonte Axios, citando un alto funzionario della Casa Bianca.