LO STATO DELL’ARTE IN TEMA DI CONTRASTO ALLA VIOLENZA DI GENERE: DAL DDL “CODICE ROSSO” ALLA CONDANNA DELLA CORTE DI STRASBURGO

di Daniela Gentile

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Disegno di legge del Governo A.C. 1455
Il 28 novembre 2018 il Consiglio dei Ministri ha approvato il “codice rosso”, il disegno di legge proposto dai Ministri della Giustizia e della Pubblica amministrazione, che ha come obiettivo quello di garantire una ‘corsia preferenziale’, ovvero una maggiore tutela alle vittime di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni, commessi in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza, assicurando la tempestività dell’adozione degli interventi cautelari o di prevenzione. Il Calendario dei lavori parlamentari prevede l’inizio della sua discussione nella settimana del 25-29 Marzo 2019.

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Impianto normativo adeguato, formazione specialistica degli addetti ai lavori, applicazione giurisprudenziale. Questi, a parere di chi scrive, i tre pilastri entro i quali dovrebbe muoversi e svilupparsi la cultura del contrasto al fenomeno della violenza di genere.

In quest’ottica, come in un cantiere sempre aperto, il legislatore prova ancora una volta a mettere mano al tema, spinoso, della violenza esercitata contro le donne e lo fa con un intervento dal titolo evocativo: il d.d.l. denominato “codice rosso” deputato, nelle dichiarate intenzioni, a «garantire l’immediata instaurazione e progressione del procedimento penale al fine di pervenire, ove necessario, nel più breve tempo possibile all’adozione di provvedimenti protettivi o di non avvicinamento e quello di impedire che ingiustificabili stati procedimentali possano porre ulteriormente in pericolo la vita e l’incolumità fisica delle vittime di violenza domestica e di genere».
Le disposizioni, tuttavia, dal sapore esclusivamente programmatico e ordinamentale, rischiano di avere, a fronte di un notevole impatto mediatico, scarsa efficacia concreta.

Entrando nel dettaglio, il testo si compone di cinque articoli ed è destinato ad operare in un ambito circoscritto di ipotesi delittuose ovvero i reati di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), violenza sessuale, anche nelle forme della violenza contro minore e della violenza di gruppo (artt. 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.), nonché talune ipotesi di lesioni personali aggravate (art. 582 aggravato ai sensi degli articoli 576, primo comma n. 2 e 5, 5.1, 577 primo e secondo comma c.p.).

L’art. 1 modifica l’art. 347 c.p.p. prevedendo che la polizia giudiziaria comunichi “immediatamente” al pubblico ministero “anche in forma orale” notizia della commissione di uno dei reati sopra elencati. Considerando che la norma in questione già contempla un nutrito numero di reati per i quali va attuata questa procedura è evidente che l’ampliamento di una “corsia preferenziale” di per se stesso causerà rallentamenti nell’applicazione.
L’art. 2 del disegno di legge contiene la norma che, in apparenza, potrebbe risultare la più energica ovvero l’obbligo per il pubblico ministero che procede di assumere informazioni dalla persona offesa entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato. Il termine ha, purtroppo, natura ordinatoria con tutti i limiti che ne derivano; resta da sciogliere il dubbio sulla possibilità di delegare l’ascolto alla polizia giudiziaria.
L’art. 3  introduce l’obbligo per la polizia giudiziaria di procedere “senza ritardo” al compimento degli atti di indagine a cui sia stata delegata dal pubblico ministero e di porre “senza ritardo” gli atti a disposizione del magistrato quando si proceda per i reati elencati nell’art 1. Anche in questo caso la disposizione ha carattere meramente programmatico e ordinatorio. Incideranno quindi sul “senza ritardo” i carichi di lavoro degli uffici, la probabile carenza di organico e le altre eventuali disfunzioni.
L’art. 4 del disegno di legge si occupa invece, di un aspetto sovente sottovalutato prescrivendo che siano attivati “specifici corsi” rivolti alla polizia di stato, ai carabinieri e alla polizia penitenziaria “in relazione alla prevenzione e al perseguimento” dei reati di cui all’art. 1. Tuttavia esso ne rimanda l’istituzione affidando la concreta operatività ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri da adottare entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge che contenga l’indicazione di durata, contenuto e modalità di svolgimento. Norma che rischia di essere vanificata dalla clausola di invarianza introdotta a chiusura dall’articolo 5 del disegno di legge in base alla quale “le amministrazioni interessate provvedono ai relativi adempimenti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibile a legislazione vigente”. Nihil sub sole novum dunque.

Le intenzioni, nobili, dichiarate nella relazione illustrativa richiamano all’attuazione della Direttiva 2012/29/UE rispetto alla quale è già intervenuto il D.Lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 . Difficile non presagire le difficoltà operative legate alla predisposizione di un impianto di misure che per poter funzionare correttamente e come immaginato necessiterebbe di risorse umane e finanziare da dedicare esclusivamente al tema in oggetto.
Il provvedimento è destinato ad inserirsi in quel micro-cosmo processuale caratterizzato, specie negli ultimi 20 anni, dalla volontà di irrobustire la tutela per le vittime di violenza di genere introducendo, solo a titolo di esempio, un ampliamento delle ipotesi di procedibilità d’ufficio e di dilatazione del termine per proporre la querela, con contestuale affermazione della “irrevocabilità” di essa ovvero ampliando le attribuzioni delle funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado al Procuratore della Repubblica distrettuale.

E’ in atto un processo che parte da lontano, da quando il 18 dicembre 1979 venne adottata a New York la Convenzione delle Nazioni Unite sulla «eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna», ratificata dall’Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132. Da allora molti documenti si sono succeduti fino ad approdare ad uno dei provvedimenti maggiormente significativi in materia ovvero il d.l. 14 agosto 2013, n. 93, recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», adottato dal nostro Governo.
Non si può dar conto dell’intero corpus normativo creato ad hoc per rispondere al fenomeno ma, in questo contesto, va senza dubbio citata la L. 11 gennaio 2018, n. 4, con la quale il Parlamento italiano ha approvato una disciplina che punta a offrire sostegno agli orfani di femminicidio. La novella è particolarmente meritevole di attenzione anche perché si focalizza su aspetti ignorati per moltissimo tempo, tra i quali quello relativo ai traumi e alle devastanti conseguenze psicologiche e sociali vissute da questi orfani che si riflettono, poi, indirettamente anche sulla applicazione di istituti giuridici come la decadenza dalla responsabilità genitoriale o la designazione del tutore.

Si è in apertura, tuttavia, posto l’accento sul rischio che l’impianto normativo possa restare lettera morta se non sostenuto da un contemporaneo sviluppo formativo e culturale e da una parallela ed efficace applicazione giurisprudenziale.
In questo senso se può registrarsi un’opera della giurisprudenza tesa a dilatare i contorni di alcune fattispecie come ad esempio quella prevista all’art. 612 bis c.p. laddove si ritrovano pronunce della Suprema Corte che ritengono integrato il reato di atti persecutori anche, ad esempio, al ricevimento di una chiamata (proveniente da un’utenza non identificata) nel corso della quale l’interlocutore, di sesso maschile, utilizzi espressioni a contenuto osceno e volgare, ovvero nell’ipotesi di condotta realizzata per il tramite dell’invio di dodici messaggi attraverso whatsapp e di due telefonate, dall’altro, ad esempio, si evidenzia, per il tramite di un’indagine operata sulla giurisprudenza del Tribunale di Milano l’inadeguatezza del reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. nella repressione della violenza domestica risultando ad esso estranee le ipotesi nelle quali non sia evidente la posizione di soggezione o sottomissione della vittima.

Un altro gap nella tutela è iconograficamente rappresentato da una recente condanna inflitta al nostro paese dalla Corte edu.
Nella decisione si legge che «le Autorità nazionali che non sono in grado di riconoscere la situazione di pericolo reale e imminente cui sono esposte le vittime di violenza domestica e che, pur potendo disporre di uno strumentario normativo volto a contrastare tale fenomenologia criminosa, non intervengano tempestivamente con misure adeguate ed efficaci, originando in tal modo un contesto di impunità e consentendo di fatto la reiterazione di gravi atti di violenza, culminati, nel caso di specie, nel tentato omicidio della ricorrente e nell’omicidio di suo figlio per mano del marito, rispondono per avere violato il diritto alla vita (art. 2), il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3) e il divieto di discriminazione (art. 14), contemplati nella CEDU».
Incide, sul tema, la cronica carenza di organico delle forze dell’ordine e la mancanza di formazione specifica sul punto che non consentono di gestire con celerità ed efficacia le diverse situazioni che si presentano.

La Corte, pur rilevando incidentalmente come il legislatore si mostri attento al tema attraverso l’emanazione di diversi provvedimenti come ad esempio la l. 1 ottobre 2012, n. 172 e la L. 23 aprile 2009, n. 38, che reca misure di contrasto alla violenza sessuale e introduce nel nostro ordinamento il delitto di atti persecutori che prevede, tra le altre cose, l’obbligo per le forze dell’ordine, i presidi sanitari e le istituzioni pubbliche di fornire alla vittima le informazioni sui centri antiviolenza presenti nel territorio nonché di metterla in contatto, qualora ne faccia richiesta, con i centri medesimi, riconosce che la tutela astratta non ha un contraltare in quella concreta e che ciò comporta responsabilità per aver violato l’art. 2 della Convenzione, quanto all’obbligo positivo, ivi previsto, di adottare misure preventive e di ordine pratico per salvaguardare la vita delle persone dalle azioni criminose altrui, un obbligo a cui la Corte ha fatto spesso riferimento.

Nell’articolare la sua decisione ci si interroga anche sulla conformità dell’operato delle autorità italiane e sulla loro adeguatezza rispetto al caso concreto, riconoscendo, invero, le ripercussioni negative del tardivo intervento in seguito alla denuncia della ricorrente; viene ribadito il danno prodotto dal trascorrere del tempo sia in termini di compromissione della ricostruzione probatoria che in punto di deficit di fiducia che si crea nella vittima che sente crescere, invece, un profondo senso di diffidenza nei confronti delle istituzioni.

Dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 deriva, inoltre, per gli organi statali, il dovere non solo di costruire un sistema di protezione sul piano formale, ma anche di dotarlo di concretezza ed effettività; ed è compito della Corte, pur non potendosi sostituire alle autorità nazionali e operare al loro posto, garantire che gli Stati applichino correttamente gli obblighi volti a tutelare i diritti delle persone che sono sotto la loro giurisdizione, tra i quali rientra anche l’esigenza che le indagini siano svolte tempestivamente e in tempi ragionevoli. In effetti, se questi impegni non vengono rispettati, ai sensi dell’art. 3 della CEDU, l’istanza di protezione non può certo dirsi soddisfatta, per quanto contemplata formalmente dall’ordinamento.

E’ chiaro che un mutamento culturale è in atto e, come tutti i movimenti figli del nostro tempo, il contrasto al fenomeno della violenza contro le donne dovrà fondarsi, nel lungo periodo, prima di tutto su un cambiamento delle coscienze. Non potendo attendere, tuttavia, i tempi di gestazione di tale evoluzione nel breve periodo è ancora al duplice versante preventivo e repressivo che dobbiamo guardare; per rafforzare le tutele occorrono buone norme ma calate in un contesto ove esse riescano ad esprimere il loro massimo grado di efficacia. ©

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