di Simona Usai
Corte di Cassazione, Sezione Civile Unite, sentenza n. 20384 dell’8 giugno 2021 e depositata il 16 luglio 2021
In ambito penale, il regime di riferimento in materia di registrazione tra presenti si è formato a partire da Cass.SSUU pen. n.36747/03 (imp.Torcasio). Si tratta di indirizzo, volto a distinguere e sottrarre la registrazione fonografica di conversazioni o comunicazioni tra presenti alla disciplina autorizzativa ed esecutiva propria delle intercettazioni ex artt.266 segg. cod.proc.pen., innumerevoli volte ribadito e specificato dalla giurisprudenza successiva. La Corte ha osservato che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l’utilizzo processuale della fonoregistrazione non è precluso dal c.d. Codice Privacy (d.lgs 196/93). La Corte ha osservato inoltre che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche ex art.2712 cod.civ., così da costituire ammissibile mezzo di prova anche nel processo civile.
È possibile registrare o intercettare una telefonata senza rischiare di incorrere in un reato? Domanda piuttosto frequente negli ultimi tempi.
È bene chiarire subito che le intercettazioni sono un caso diverso dalle registrazioni, in quanto intercettare una conversazione tra due o più soggetti vuol dire apprendere in maniera occulta, cioè a loro insaputa, in tempo reale, del contenuto della conversazione in corso da parte di altri soggetti, estranei al colloquio. Mentre registrare una conversazione vuol dire imprimere – anche in maniera occulta – su un dispositivo di trasmissione quel colloquio da parte di chi partecipa alla riunione o comunque può assistervi.
Nel caso delle intercettazioni si captano dall’esterno i contenuti di una conversazione, i cui caratteri di segretezza e riservatezza possono essere violati solo da un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, invece, nel caso delle registrazioni chi registra la conversazione è presente al colloquio (anche stando solo in silenzio), non ne è estraneo, quindi, il contenuto della conversazione viene “cristallizzato” in un supporto fonico, per il quale non vi è alcun obbligo di riservatezza, salvo particolare qualifica degli interlocutori.
La Cassazione ha chiarito che le registrazioni di conversazioni non rientrano nel novero delle intercettazioni e che pertanto le prime non soggiacciono alla disciplina delle seconde. Le intercettazioni, perché possano qualificarsi tali, debbono rispondere ad una serie di requisiti, quali: a) i soggetti che comunicano tra di loro lo fanno con l’intento di tenere segreta la comunicazione; b) è necessario l’uso di strumenti tecnici di percezione che in genere vengono effettuati da impianti installati dalla Procura o solo eccezionalmente da impianti di pubblico servizio o in dotazione alla Polizia Giudiziaria; c) il soggetto captante deve essere estraneo al colloquio, effettuato in maniera clandestina; d) le operazioni di captazione devono essere autorizzate dall’autorità giudiziaria per poter poi essere utilizzate nel processo.
Dunque, non può rientrare nel concetto di intercettazione la registrazione di una conversazione ad opera di persone che vi partecipano, perché la comunicazione, svoltasi in maniera legittima e libera, senza intrusioni di terzi, entra a far parte del patrimonio di conoscenza degli interlocutori, pertanto, ognuno ne può disporre, a meno che per la particolare qualifica rivestita o per lo specifico oggetto della conversazione, non vi siano divieti alla divulgazione (es. segreto d’ufficio).
È lecito, quindi, registrare una conversazione, perché chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui. Quindi, registrare una conversazione, anche telefonica, da parte di un soggetto che vi partecipa è legittimo, anche se è eseguita senza informare l’altro della registrazione in corso, perché – in qualche modo – ogni interlocutore deve assumersi la responsabilità di quel che dice.
Anche la registrazione delle conversazioni WhatsApp, operata da uno degli interlocutori, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico, sebbene in questo caso sia indispensabile controllare l’affidabilità della prova medesima mediante l’esame diretto del supporto, al fine di verificare con certezza sia la paternità delle registrazioni, sia l’attendibilità di quanto da esse documentato.
Ci si chiede, però, quando e se il contenuto della registrazione possa essere utilizzato.Nel Nel processo penale la giurisprudenza ritiene che sia possibile acquisire in giudizio la registrazione dei colloqui attraverso il meccanismo dell’art. 234 c.p.p., che qualifica “documento” tutto ciò che rappresenta fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Il nastro contenente la registrazione non è altro che la documentazione fonografica del colloquio, la quale può integrare quella prova che diversamente potrebbe non essere raggiunta e può rappresentare (si pensi alla vittima di una estorsione) una forma di autotutela e garanzia per la propria difesa.
Anche la registrazione tramite l’applicazione “call recorder”, costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile in dibattimento quale prova documentale, ai sensi dell’art. 234 c.p.p..
In ambito privatistico, invece, la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel “genus” delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile, pertanto, la sua effettuazione, per esempio nelle cause di lavoro, operata dal lavoratore ed avente ad oggetto un colloquio con il proprio datore di lavoro, non integra illecito disciplinare. “Né tale condotta, comunque scriminata ex art. 51 cod. pen., in quanto esercizio del diritto di difesa, la cui esplicazione non è limitata alla sede processuale, può ritenersi lesiva del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro, che concerne esclusivamente l’affidamento di quest’ultimo sulle capacità del dipendente di adempimento dell’obbligazione lavorativa”.
L’altra parte, però, non può semplicemente contestare la conversazione, ma deve verificare che la stessa sia realmente avvenuta e che il contenuto riportato sia quello reale. Ciò in quanto il “disconoscimento” che fa perdere alle riproduzioni [fonografiche] la loro qualità di prova (da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali degli artt. 167 e 183 c.p.c.), deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, nel senso che deve concretizzarsi nell’allegazione di elementi che attestino la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta.
Dunque, l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui, per esempio, tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro, non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra.
Un altro aspetto sicuramente molto delicato è quello legato alla eventuale diffusione della registrazione, magari attraverso internet o canali social, senza comunicarlo alle persone coinvolte. Oggi, tutti (o quasi) sono dotati di un telefonino o uno smartphone, con il quale possono registrare o videoregistrare tutto, ma non tutto può essere condiviso “in rete” o inviato ad un amico.E allora è possibile registrare una conversazione senza incorrere nella violazione del codice della privacy o, peggio, nella violazione del codice penale?
Come abbiamo già visto, i Supremi Giudici consentono di effettuare le registrazioni, poiché chi parla si assuma il rischio di essere registrato, ma la registrazione non può essere liberamente divulgata, diversamente non avrebbe più senso parlare di diritto alla privacy.
Qualora la registrazione della chiamata fosse diffusa con lo scopo di arrecare un pregiudizio all’altra persona, o comunque di arrecargli un danno, perché la voce rientra tra i dati biometrici protetti dall’art. 9 GDPR, come richiamato dal comma 2 dell’art. 167 Codice Privacy (novellato), si integrerebbero gli estremi della violazione del trattamento illecito dei dati ai sensi dell’art. 167 summenzionato.
Quindi, non è illecito registrare un colloquio, ma si rischia la violazione del codice privacy se la diffusione dello stesso avvenisse per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui e procurasse un danno all’altra parte, dove per danno si intende un “pregiudizio, anche di natura non patrimoniale, subito dalla persona cui si riferiscono i dati quale conseguenza dell’illecito trattamento”.
Nell’ambito del codice penale i Giudici hanno ritenuto che “in caso di registrazioni di conversazioni tra presenti da parte di un partecipante alle stesse (e quindi con il consenso di uno dei presenti alla conversazione), non sia configurabile l’ipotesi di reato di cui all’art. 615 bis c.p. (rubricato come “Interferenze illecite alla vita privata”) e la registrazione sia utilizzabile come prova nel processo civile.
Le registrazione di colloqui riservati costituiscono una violazione, oltre che della norma penale sostanziale di cui all’art. 615-bis c.p., anche delle garanzie costituzionali dell’art. 13 Cost., aspetto sul quale anche la Corte costituzionale, a partire dalla pronuncia del 6 aprile 1973, n. 34, ha inteso precisare nel senso che le «attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subìto».
L’art. 615 bis al comma 1 punisce la condotta di colui che, attraverso l’utilizzo di apparecchiature visive o audio, si procura indebitamente notizie o immagini relative alla vita privata nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale (luoghi di privata dimora, appunto), disponendo, al comma 2, che alla stessa pena soggiace anche colui che rileva o diffonde, attraverso qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, notizie o immagini carpite attraverso le modalità indicate.
Uno dei problemi di questa norma è stato quello di circoscrivere il più possibile l’ambito di “privata dimora”. La Suprema Corte, che in tantissime occasioni si è pronunciata sulla questione, ha cercato di attribuire un significato esteso alla nozione di “privata dimora”, alla quale il legislatore fa riferimento in una serie di norme di carattere sostanziale (artt. 52, comma 2, 614, 615, 615-bis, 628, comma 3 c.p.) e processuale. Nel tempo il concetto di “privata dimora”, rispetto a quello di abitazione/domicilio, è stato ampliato, tant’è che i Giudici hanno ricompreso al suo interno il “bagno di pertinenza di un circolo privato”, la “toilette” di uno studio professionale (trattandosi di locale il cui accesso era riservato al titolare ed ai dipendenti dello studio ed era consentito a clienti e fornitori solo in presenza di positiva volontà del personale), il bagno dell’ufficio riservato al personale femminile, la barca, l’autovettura in cui una persona stia trascorrendo la notte, ecc. Questo perché il luogo di “privata dimora” deve essere destinato ad attività della vita privata (riposo, studio, attività lavorativa etc.) al riparo da intrusioni esterne; senza considerare che tra il luogo e la persona deve sussistere un rapporto di “durata apprezzabile” e non connotato da mera occasionalità; e lo stesso deve essere inaccessibile da parte di terzi in assenza del consenso del titolare. Quindi, non è possibile divulgare momenti di vita privata vissuti all’interno dei luoghi di dimora privata.
Questo non vuol dire che al di fuori della privata dimora sia comunque possibile captare o diffondere video o file: occorre sempre il consenso della persona captata, poiché diversamente si determinerebbe una violazione del diritto alla privacy, salvo che la pubblicazione non riguardi una persona nota o famosa (ad es. politico, attore, cantante) in avvenimenti di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. In assenza del consenso – ricordiamolo – si rischia una richiesta di risarcimento per eventuali danni subiti.
Infine, fuori dai casi previsti dal secondo comma dell’art. 615 bis c.p., qualora la foto o il video fossero lesivi della reputazione della persona ripresa o interferiscano con la vita privata del soggetto, colui che li rende pubblici potrebbe incorrere nel reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente, disciplinato dall’art. 617 septies c.p., punito con la reclusione fino a quattro anni. Questo perché la diffusione di un video o di un audio di incontri privati, di conversazioni dal vivo, telefoniche o telematiche – realizzati in maniera fraudolenta – potrebbe ledere l’immagine di una persona compromettendo non solo la sua personalità nel contesto in cui vive (e quindi anche la sua piena ed effettiva realizzazione, ex art. 2 Cost.), ma anche facendogli perdere la reputazione o stima che gli altri hanno di sé nella sua comunità.
Se, però, l’oggetto dell’art. 615 c.p. è la tutela del domicilio e la sua inviolabilità come tutela della privacy e della riservatezza in senso stretto, nell’art. 617 septies c.p. ad essere tutelata non è la riservatezza o la privacy, ma, principalmente la lesione dell’onore e della reputazione della persona offesa (e indirettamente la tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni e conversazioni) –che deriva dalla diffusione di immagini, di colloqui o di incontri aventi carattere privato.
Dunque, se a livello Costituzionale è sancito il principio (art. 15) della segretezza (…) di ogni forma di comunicazione, principio inviolabile, a livello comunitario l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ripropone il principio in base al quale “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare” e non “può esservi ingerenza di una autorità pubblica a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge” e costituisca una misura necessaria solo per specifiche necessità (ad esempio: sicurezza nazionale, pubblica sicurezza). Infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto legittima una videoregistrazione da parte di alcuni giornalisti, poiché il diritto di informare su fatti di interesse pubblico prevale sul diritto al rispetto della vita privata. Inoltre, il giornalista, anche celando la propria identità, non deve mai fingersi un’altra persona (fu ritenuta, infatti, illecita l’acquisizione di notizie private mediante l’imitazione, abilmente realizzata durante il corso di una telefonata, della voce di un soggetto che si trovava in rapporto privilegiato con l’interlocutore).
Di recente, la Suprema Corte è intervenuta sul tema delle registrazioni di conversazioni effettuate in uno studio legale per precisare che la registrazione di un colloquio tra cliente e proprio avvocato, effettuata di nascosto dal cliente stesso, che vi ha partecipato o comunque che è stato ammesso ad assistervi, è utilizzabile come prova in un procedimento disciplinare. In questa decisione i Giudici – sul tema delle registrazioni – si sono conformati all’orientamento già formato a partire dalla famosa sentenza delle Sezioni Unite penali della Cassazione del 2003, ritenendo utilizzabili le registrazioni di un colloquio in giudizio, sebbene – elemento di novità – avvenute all’interno di uno studio legale.
Va precisato che la recente decisione della Corte aveva ad oggetto un procedimento disciplinare e non penale, e che gli stessi giudici hanno avuto modo di chiarire che “[…] il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale per gli stessi fatti”, in quanto i due procedimenti hanno diversa “finalizzazione”. Dunque, i giudici civili possono essere chiamati a svolgere differenti valutazioni rispetto a quelli penali sul medesimo fatto.
Non a caso in ambito penale, la giurisprudenza ha più volte ritenuto lo studio legale equiparabile ad un luogo di “privata dimora”, trattandosi di luogo avente le stesse caratteristiche dell’abitazione, in termini di riservatezza e, conseguentemente, di non accessibilità da parte di terzi senza il consenso dell’avente diritto. Dunque, inviolabile.
Ora, in ambito civilistico, e più propriamente lavoristico-disciplinare, invece, i Giudici ritengono che le registrazioni tra avvocato e proprio assistito possano essere utilizzate in un processo (nella specie si trattava di un procedimento disciplinare a carico di un difensore dinanzi al Consiglio Nazionale Forense). Evidentemente, la Corte in un contesto quale quello lavoristico-disciplinare ha ritenuto lo studio legale al pari di un qualunque luogo di lavoro, e così come un lavoratore allo stesso modo un cliente/assistito può registrare dichiarazioni del proprio datore di lavoro/avvocato. Registrazioni che, in seguito, possono assumere valenza probatoria in un procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato stesso.
La Corte non ha operato, dunque, alcun “sovvertimento del dogma dell’inviolabilità dello studio legale”, come riportato da alcuni commentatori di detta sentenza, proprio perché detta inviolabilità continua – almeno fino ad oggi – a rimanere nella sfera di competenza penalistica. In ambito civilistico, invece, lo studio legale assume una veste nuova, quella di luogo di lavoro, dove le dichiarazioni rese dalle parti in una conversazione – se registrate – potranno essere poi valutate in un eventuale giudizio.
In questa nuova prospettiva, quindi, la recente giurisprudenza sta cercando di estendere quanto più possibile l’ambito di operatività del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, e comunitariamente valorizzato, riducendo i margini della riservatezza, ma certamente non compromettendo la dignità delle persone coinvolte. ©