L’obbligo dei codici identificativi degli agenti di Polizia

Uno stato dell’arte tra normative in UE e proposte di legge in Italia

di Stefano Guerra, Michele Lippiello

Il dibattito sulla necessità o meno dei codici identificativi degli agenti appartenenti alle forze di polizia, in Italia e in Europa, perdura da oltre vent’anni, nel corso dei quali la maggior parte degli Stati membri dell’UE, aderendo agli inviti comunitari – e non solo – ne ha imposto l’obbligo con diverse sfumature, mentre una parte minoritaria ancora presenta un vulnus normativo al riguardo. Raggiunto il suo apice in conseguenza dei fatti occorsi al G8 di Genova, il tema dei codici identificativi delle forze di polizia sta tornando sempre più spesso e con vigore crescente nelle cronache quotidiane relative alla governance dell’ordine e della sicurezza nelle manifestazioni pubbliche e, per conseguenza, nell’agenda parlamentare italiana, come pure negli Stati europei ove ancora mancano previsioni o proposte legislative in merito. Il presente contributo intende inquadrare tale fenomeno, individuando le possibili ratio sottese all’identificazione tramite codici degli agenti appartenenti alle forze di polizia, illustrare le diverse posizioni sulla necessità o meno della previsione di un relativo obbligo e fornire uno stato dell’arte utile a comparare i sistemi giuridici degli Stati in Europa provvisti o meno di una normativa puntuale sul tema, al fine di cogliere varie prospettive.

 

 

 


  1. Ratio, fattispecie e diritti da bilanciare.

In astratto, la previsione normativa di imporre l’obbligo di identificazione degli agenti appartenenti alle forze di polizia, salvo alcune eccezioni, per mezzo di codici da apporre sulle divise troverebbe la propria ratio nel diritto dei soggetti che vi interagiscono di risalire immediatamente al singolo agente di polizia in cui si imbatte in qualsivoglia circostanza, rafforzando il contatto sociale tra popolo e forze di polizia statale. In concreto, il dibattito che ne è scaturito affonda le proprie radici nella necessità di identificare il singolo agente di polizia nel corso di manifestazioni pubbliche per cui è prevedibile il rischio di compromissione dell’ordine e della sicurezza, al fine di garantire il controllo e le responsabilità del personale statale a ciò preposto, nei casi di uso sproporzionato della forza, torture o trattamenti degradanti nei confronti dei manifestanti. Muoveremo da quest’ultima considerazione, per esplorare tale fenomeno.

È notorio che in occasione delle manifestazioni pubbliche ove viene previsto il pericolo di violazione dell’ordine e della sicurezza gli agenti di polizia antisommossa adoperano un equipaggiamento speciale di sicurezza che comprende l’uso di tute, scudi e caschi che ostacolano o impediscono il riconoscimento facciale. Inoltre, nel corso di tali manifestazioni, usualmente, si generano situazioni di confusione, assembramento e movimento tali da rendere complicata l’individuazione del singolo agente in divisa titolare di determinate condotte da valutare ai fini della relativa legittimità. In altri termini, la tenuta antisommossa rende il più delle volte irriconoscibile l’agente di polizia che durante una manifestazione pubblica ponga in essere condotte violente nei confronti dei dimostranti, rischiando di comprometterne l’identificazione. Atteso il carattere personale della responsabilità penale, ne consegue che la stessa mai può essere attribuita al corpo di polizia cui appartiene l’agente titolare della condotta illegittima. Ne discende, dunque, l’importanza di affrontare tale fenomeno, delineando un quadro normativo in diversi Paesi europei che prevedono o meno l’obbligo dei codici identificativi in capo agli agenti delle forze di polizia in siffatte situazioni.

Senz’altro, ogni sistema democratico che si rispetti è dotato di un ordinamento giuridico proteso ad assicurare sempre alla giustizia qualsivoglia soggetto che si macchi di condotte illecite. Nel caso di specie, trattasi di comportamenti assunti in un peculiare contesto relazionale di soggezione tra un agente che ricopre un ruolo autoritario e un individuo limitato, il più delle volte, nella propria autodeterminazione. Da tale rapporto è emersa, in Italia in particolare, la questione della strumentalizzazione della posizione di supremazia dell’agente, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, al quale è consentito l’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica. Infatti, non mancano casi in cui gli agenti sono provocati, subiscono lesioni o sono coinvolti in trappole o agguati ad opera di singoli facinorosi o gruppi di manifestanti violenti, i quali, per l’appunto, lungi dal semplice manifestare, mirano ad attaccare le forze di polizia.

Ad ogni modo, in caso di abuso di mezzi di coazione fisica in circostanze in cui è difficile riconoscere l’agente che ne è autore – come quelle summenzionate – si pone il problema delle modalità di identificazione. Tra le proposte più caldeggiate, figura l’applicazione dei codici identificativi sulle uniformi degli agenti di polizia. Pertanto, nel prosieguo, sarà sviluppata l’analisi di tale fenomeno, individuandone dinamiche, rischi e benefici, anche tramite l’illustrazione della disciplina in diversi sistemi giuridici europei sul tema, mettendo sui piatti della bilancia da un lato il rispetto dei diritti umani, la prevenzione delle violazioni e la garanzia di controllo degli agenti di polizia tramite la trasparenza a tutela dei privati e dall’altro il diritto alla privacy,  la sicurezza personale e la certezza nell’attribuzione delle responsabilità degli agenti stessi.

La questione dell’obbligo dei codici identificativi sulle divise è discussa da decenni in Europa. In particolare, più recentemente, la campagna a favore dell’inserimento dell’obbligo dei codici identificativi è esplosa nel 2011, decimo anniversario del G8 di Genova, ricordando gli eventi sinistri occorsi nella caserma Diaz passati alla storia senza l’integrale identificazione di tutti gli agenti autori delle condotte illecite ivi perpetrate. Di qui, periodicamente, allorquando risaltano all’onore delle cronache episodi di violenza nel corso di manifestazioni pubbliche con il coinvolgimento di forze di polizia, si ripropone l’annosa questione dell’identificazione degli agenti con conseguente riapertura del relativo dibattito, anche in diverse sedi istituzionali.

A livello legislativo ancora esistono Paesi con vuoti normativi in materia. La ragione di tale vulnus è da ricercare soprattutto nel maggior peso attribuito dai legislatori alla privacy degli agenti di polizia impegnati in operazioni antisommossa con i manifestanti, rispetto al diritto di questi ultimi di potere individuare gli autori di eventuali atti illeciti.

Volendo sintetizzare, esistono due orientamenti circa la necessità di introdurre nell’ordinamento giuridico l’obbligo dei codici identificativi.

Per un verso, v’è chi ritiene necessaria l’applicazione di tali codici sia per un’immediata o più semplice identificazione degli agenti autori di condotte illecite nei confronti dei dimostranti sia per dissuadere gli agenti stessi da assumere comportamenti violenti, pena l’identificabilità agevolata da parte dei presenti. Inoltre, secondo questo primo orientamento, l’obbligo di identificazione tramite codici costituirebbe anche una forma di garanzia per le forze di polizia stessa, andando ad isolare le condotte di pochi che contravvengono alla legge e ai principi ispiratori stessi dei reparti speciali votati a garantire l’incolumità delle persone. Pertanto, i sostenitori del predetto obbligo caldeggiano i vari Stati di colmare le lacune presenti nei rispettivi sistemi giuridici in materia, sia per prevenire ed arginare eventuali violazioni dei diritti umani in cui siano coinvolte le forze di polizia sia per consolidare il ruolo cruciale di queste nella tutela dei diritti della collettività.

Per un altro verso, v’è chi valuta lo strumento dei codici identificativi non solo lesivo della privacy dei singoli agenti di polizia, ma anche altamente pericoloso per costoro, a causa delle ripercussioni e/o delle vendette personali che potrebbero subire dai manifestanti che in tal modo potrebbero agevolmente identificarli con ogni eventuale nefasto effetto. Più nel dettaglio, tale orientamento interpreta l’identificazione tramite codici degli agenti di polizia come una “schedatura” inaccettabile, idonea a produrre una proliferazione di denunce prive di fondamento, oltreché come un attestato di sfiducia nei confronti delle forze di polizia, a nocumento reputazionale dell’intera categoria.

In effetti, l’applicazione di codici identificativi veri e propri con l’indicazione di nome e cognome degli agenti sui caschi e/o sulle uniformi renderebbe di fatto pubblici i loro dati di riconoscimento, incidendo sulla loro riservatezza personale e mettendo potenzialmente a rischio la loro sicurezza individuale. Al riguardo, diverse associazioni propongono da tempo di normare la questione, prevedendo l’obbligo di introdurre l’applicazione del codice identificativo su divise e caschi di agenti e funzionari di polizia (senza distinzione di ordine e grado) impegnati in operazioni di sicurezza ed ordine pubblico, sottoforma di segno alfanumerico individuale, quale elemento necessario di accountability e simbolo di trasparenza istituzionale,  evitando la dicitura di nome e cognome.

  1. Un quadro normativo sul tema nell’Unione europea

In Europa, la regolamentazione concernente l’applicazione dei codici identificativi su caschi e divise degli agenti delle forze di polizia appare frastagliata. Più nello specifico, né le Comunità europee, a partire dal 1957, passando per il Trattato di Maastricht nel 1992, né l’Unione europea dal 2009 ad oggi hanno mai prodotto atti vincolanti per gli Stati membri contenenti una disciplina ad hoc sul tema in questione.

Il 19 settembre 2001, all’indomani dei fatti del G8 di Genova, il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha formulato la seguente raccomandazione, in occasione dell’approvazione del Codice etico della Polizia: di norma, nel corso di un intervento, il personale di polizia deve essere in condizione di dimostrare il proprio grado e la propria identità professionale. Questo documento, dunque, invitava gli Stati membri a introdurre nei rispettivi sistemi la riconoscibilità e l’identificabilità di ciascun agente di polizia nel corso di manifestazioni pubbliche.

Solo nel 2012, il Parlamento dell’Unione europea ha adottato una risoluzione che esortava gli Stati membri ad introdurre apposite misure di identificazione del personale di polizia impiegato nelle manifestazioni pubbliche. Trattasi della raccomandazione generale n. 192 presente nella sezione del documento dedicata ai “Diritti delle vittime e accesso alla giustizia”: il consesso «esprime preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE; invita gli Stati membri a provvedere affinché il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell’applicazione della legge e del loro personale sia rafforzato, l’assunzione di responsabilità sia garantita e l’immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti; esorta gli Stati membri a garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo»[1].

Ad oggi, diciannove Stati membri dell’Unione europea su ventisette[2] hanno adeguato i propri ordinamenti giuridici alle richieste dell’Unione europea, adottando un’apposita normativa  sulle misure di identificazione degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico.

Alcuni Paesi utilizzano semplici codici numerici, mentre altri adoperano targhette che indicano nome e cognome dell’agente in servizio.

In Croazia, Danimarca, Estonia, Lituania, Norvegia, Romania, Slovacchia e Svezia, gli agenti di polizia sono identificati tramite un numero di matricola e/o il proprio nominativo sul casco e/o sulla divisa. Una identificabilità totale è prevista anche in Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia. In Spagna, gli agenti della Guardia Civil e della Policìa Nacional sono obbligati a presentare il “número de placa”[3], distintivo di identificazione personale della Polizia Nazionale sulle uniformi, che consente ai cittadini di individuare gli agenti delle Forze e degli Organismi di Sicurezza dello Stato che eccedano o esercitino un uso sproporzionato della forza[4]. In Francia, gli agenti di polizia, sia in uniforme sia in borghese, devono esporre un codice numerico di identificazione, ad eccezione di quelli rientranti nei servizi antiterrorismo o in attività riservate[5]. Qui, il tema degli identificativi è stato trattato anche dal Consiglio di Stato,[6] che ha ordinato al Ministero dell’Interno di rendere effettivo l’obbligo per le forze dell’ordine di indossare il proprio numero di identificazione durante il servizio ordinario – “l’Archivio dell’identità e dell’organizzazione (RIO)[7]” – e di renderlo più visibile.

In Germania,[8] l’obbligo per gli agenti delle varie forze di polizia di esporre il numero di riconoscimento è previsto in nove Länder su sedici,[9] mentre i corpi di polizia regionali hanno una mera facoltà di riportare un’etichetta identificativa. Le discussioni sull’uso della forza da parte della polizia nel 2010 durante le manifestazioni contro uno dei progetti di sviluppo ferroviario e urbano più grandi d’Europa, “Stuttgart 21”, e contro il trasporto di scorie nucleari all’impianto di stoccaggio provvisorio di Gorleben hanno rafforzato la richiesta di un’etichettatura obbligatoria anche in altri Länder. In Belgio, ad oggi, le divise degli agenti sono dotate di una targhetta con nome, dipartimento di appartenenza e grado, mentre la visiera del casco presenta il cognome; entrambi dovrebbero, nel futuro prossimo, essere sostituiti da un codice numerico per garantire l’anonimato. In Grecia, nel 2010 è stato introdotto l’obbligo per ogni agente di polizia di portare un numero di riconoscimento individuale nella parte posteriore del casco, producendo non poche polemiche sulla collocazione del codice, che aggirerebbe l’obbligo di identificabilità. In Ungheria, non vige alcun obbligo di esposizione dei codici identificativi per le forze di polizia, ma è consolidata la consuetudine di applicare nome e grado sulla divisa, almeno per servizi di pubblica sicurezza delicati,  e di presentare un codice sull’equipaggiamento speciale.

Tra i ventisette Stati membri dell’Unione europea, cinque non hanno legiferato sul punto né ivi sussistono prassi e consuetudini al riguardo: Austria[10], Cipro, Italia, Lussemburgo e Olanda. Così, infine, intervengono nel 2016 sia un’interrogazione parlamentare[11] in UE riguardante i codici identificativi per le forze dell’ordine sia una raccomandazione del Consiglio sui diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), in merito alla corretta gestione delle manifestazioni, acché i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta con il nome o un numero.

  1. La situazione in Italia

             In Italia, negli ultimi venti anni circa, sono stati presentati di legislatura in legislatura, diversi disegni di legge, piuttosto simili tra loro,  per introdurre l’uso di codici alfanumerici per gli agenti ai fini di una loro riconoscibilità e identificazione, con relative sanzioni in caso di violazioni, oltreché in alcuni casi l’uso delle bodycam.[12] Tuttavia, tali iniziative mai venivano tradotte in legge.

Nel 2001, veniva proposta in Parlamento l’introduzione di una “sigla univoca” in entrambi i lati e nella parte posteriore del casco di poliziotti e carabinieri in servizio di ordine pubblico. Successivamente, si registrano ulteriori disegni di legge: 803 del 6 giugno 2013; 1307 del 13 febbraio 2014; 1337 del 26 febbraio 2014; 1412 del 25 marzo 2014. Nel 2017, con la sentenza resa il 22 giugno 2017 nel caso “Bartesaghi Gallo e altri c. Italia” (ricorsi nn. 12131/13 e 43390/13), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 3 Cedu, in  relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia italiane in occasione del G8 di Genova nel 2001 e in particolare durante l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini del 21 luglio 2001. Nella stessa sentenza, la Corte ha sottolineato la difficoltà nell’individuare i singoli responsabili di quelle violenze a causa dell’assenza di codici di identificazione sulle divise degli agenti.[13] Così, nello stesso anno, il tema è stato oggetto di una ipotesi di modifica del “Decreto Minniti”, a cui non fu dato seguito per ragioni tecniche. Si registrano, inoltre, ulteriori proposte nel 2019 e nel 2022 (alcune proponevano di introdurre sul casco e sulla divisa delle forze dell’ordine in servizio “un codice alfanumerico” visibile almeno a quindici metri, che renda possibile l’immediata identificazione dell’operatore che lo indossa). Da ultimo, si rileva quella avanzata nel 2023 che prevede anche l’adozione di bodycam per gli agenti, in modo da ricostruire compiutamente la scena e le condotte poste in essere dai dimostranti.

Attualmente, gli agenti delle forze di polizia italiane in servizio, solo se in abiti civili sono tenuti a identificarsi, su richiesta del privato con cui interloquiscono, mediante esibizione del tesserino personale di riconoscimento (salvi i casi in cui operino sotto copertura per lo svolgimento di specifici servizi).[14] Per quanto riguarda i carabinieri, il regolamento dell’Arma dei Carabinieri impone l’obbligo di portare con sé la tessera di riconoscimento nel caso di servizi svolti in borghese, insieme all’autorizzazione ad usare l’abito civile.[15] Tale meccanismo è funzionale all’identificazione dell’agente nei controlli su strada e nelle perquisizioni di singoli soggetti.

  1. Note conclusive

Alla luce di quanto sinora esposto, appare chiaro che il discorso giuridico sul tema dei codici identificativi per le forze di polizia si fonde con quello sociale e, al contempo, la produzione normativa interna agli Stati membri dell’Unione europea si adegua, in parte, ad un mero atto non vincolante. Come visto, formalmente non esiste alcun obbligo derivante da fonti normative dell’Unione. Pertanto, nessuno di questi era ed è costretto ad intervenire nel proprio sistema giuridico per introdurre la predetta prescrizione. Diciannove Stati su ventisette, spontaneamente, hanno deciso di regolamentare la materia sulla scorta di una risoluzione di matrice UE. Senza entrare nel merito della tipologia delle fonti normative UE, né delle scelte di indirizzo politico e legislativo dei singoli Stati (e, quindi, al di là della opportunità o meno di prevedere un obbligo), l’eventuale regolamentazione delle fattispecie legate a un tema simile dovrebbe basarsi su una preliminare valutazione tecnico-giuridica che includa il bilanciamento dei diritti sottesi in capo alle parti interessate.

I sostenitori dell’obbligo di etichettatura ritengono che l’indagine su eventuali casi di violenza illegittima di taluni agenti da parte delle forze di polizia sarebbe facilitata dai codici identificativi. Le normative già vigenti in diversi Stati membri dell’UE e le proposte in Italia mirano alla semplificazione dell’identificazione del personale delle forze di polizia tramite appositi strumenti calibrati, per garantire un equilibrio tra il rispetto dei diritti umani, la prevenzione delle violazioni e la trasparenza nel rapporto con i cittadini. Tra gli oppositori dell’obbligo di etichettatura, invece, si nutrono forti dubbi e diversi timori, evidenziando i seguenti aspetti negativi conseguenti alla previsione dell’obbligo: il rischio di una mania di controllo contro gli agenti di polizia; la violazione della loro privacy; la compromissione della loro sicurezza personale e familiare; l’aumento delle accuse arbitrarie contro gli agenti stessi.

Pertanto, nei Paesi ancora privi di una regolamentazione, come l’Italia, il dibattito sul tema a più livelli (giuridico, politico e sociale), nell’ottica del raggiungimento di una sintesi che assicuri il rispetto dei diritti umani e degli interessi in gioco, resta ancora aperto.

 

Bibliografia

[1] Raccomandazione generale n. 192, contenuta nella Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea (2010-2011) (2011/2069(INI), pubblicata in Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 23.11.2015 (atto 2015/C 434/08) (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52012IP0500 – ultima visita il 20.08.2024).

[2] Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia e Spagna.

[3] Trattasi di un supporto di 30×10 mm, con numeri incisi con il font Terminator, personale e non trasferibile su cui è registrato il numero di identità personale corrispondente alla tessera professionale dei funzionari del Corpo nazionale di polizia; leggibile senza difficoltà alla cosiddetta distanza del rispetto (un metro e venti centimetri approssimativamente); apposto sul corrispondente capo di abbigliamento, centrato e immediatamente sotto la posizione dell’emblema del Corpo nazionale di polizia e sopra la tasca superiore destra dell’uniforme.

[4] Cfr. https://red-juridica.com/numero-de-placa-policia/ (ultima visita il 20.08.2024).

[5] Per i dettagli, si veda il Decreto del Ministero dell’interno francese del 24 dicembre 2013, relativo alle condizioni e alle procedure per il possesso del numero di identificazione individuale da parte dei funzionari della polizia nazionale, degli assistenti di sicurezza e dei riservisti della polizia nazionale, disponibile al seguente web link:  Arrêté du 24 décembre 2013 relatif aux conditions et modalités de port du numéro d’identification individuel par les fonctionnaires de la police nationale, les adjoints de sécurité et les réservistes de la police nationale – Legiferane (legifrance.gouv.fr) (ultima visita il 20.08.2024). In particolare, sono esentati da tale obbligo il personale responsabile della sicurezza dei siti della Direzione generale della sicurezza interna, quello responsabile della sicurezza degli edifici delle rappresentanze diplomatiche francesi all’estero, il personale chiamato ad indossare l’uniforme d’onore durante le cerimonie o le commemorazioni.

[6] Cfr. https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/11/le-conseil-d-etat-ordonne-au-ministere-de-l-interieur-de-garantir-le-port-effectif-et-la-visibilite-du-matricule-des-policiers_6193777_3224.html. (ultima visita il 20.08.2024). Per la Corte, si tratta di promuovere rapporti di fiducia tra le forze di sicurezza interna e la popolazione e di garantire, nell’interesse di tutti, l’identificazione degli agenti.

[7] Il “RIO” è composto da sette numeri incisi su una minuscola barra di 45 x 12 millimetri, graffiata sul petto. Per ulteriori dettagli al riguardo, si veda Le numéro d’identification des policiers, obligatoire et pourtant (la-croix.com) (ultima visita il 20.08.2024).

[8] Sulla necessarietà della identificazione degli agenti di polizia nella letteratura di riferimento in Germania, anche alla luce del diritto costituzionale tedesco, si vedano B. Thinnes, Wege aus der Anonymität des Staates: Ein kriminologisch-empirischer Beitrag zur Kennzeichnungspflicht der Polizei, Frankfurt am Main, 2014 e T. Barczak, Die Kennzeichnungspflicht für Polizeibeamte im Lichte des Verfassungsrechts, «Neue Zeitschrift für Verwaltungsrecht», 2011, pp. 852–855.

[9] Finora è stato introdotto l’obbligo di “marcatura” per gli agenti di polizia a Berlino, Brandeburgo, Brema, Assia, Meclemburgo-Pomerania anteriore, Renania-Palatinato, Sassonia-Anhalt, Schleswig-Holstein e Turingia nella Repubblica federale di Germania. Ad Amburgo è previsto l’uso di targhette portanome, ma non obbligatorio per tutti gli agenti di polizia. In Renania Settentrionale-Vestfalia, Baden-Württemberg, Baviera, Bassa Sassonia, Saarland, Sassonia e nella Polizia Federale non vi è alcun obbligo di etichettatura (https://web.archive.org/web/20110314164750/http:/www.amnestypolizei.de/mitmachen/fragen.html – ultima visita il 20.08.2024).

[10]  Cfr. Infobrief des Wissenschaftlichen Dienstes des Deutschen Bundestages vom 18. April 2011 (ultima visita il 20.08.2024).

[11] Interrogazione parlamentare con richiesta di risposta scritta E-001723-16 al Consiglio del 29.2.2016 presentata da Isabella Adinolfi (EFDD): «L’Europa sta attraversando una grave crisi economica e migratoria e le misure speciali in materia di sicurezza adottate per far fronte alle minacce terroristiche vedono adesso più che mai il ruolo delle forze dell’ordine come centrale. In diversi Stati membri è forte tuttavia la preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante manifestazioni di protesta (vedasi ad esempio: la sentenza 07/04/2015 n. 6884/11 della Corte europea dei diritti dell’uomo), con il rischio che le forze dell’ordine possano esser percepite dalla popolazione come una minaccia. Al fine di tutelare i diritti dei cittadini e delle stesse forze dell’ordine, sarebbe opportuno, come auspicato nella risoluzione del Parlamento europeo P7_TA(2012)0500, introdurre un sistema che con codici identificativi permetta un immediato riconoscimento degli agenti. Poiché la materia rientra nelle competenze concorrenti dell’Unione in virtù dell’articolo 4, comma 2, lettera j) del TFUE e vista l’importanza dei diritti da tutelare contemplati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articoli 1, 2 e 4), può il Consiglio precisare se non ritiene di dovere intervenire introducendo una regolamentazione uniforme per tutti gli Stati membri in materia di tale sistema di codificazione?» (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/E-8-2016-001723_IT.html – ultima visita il 20.08.2024).

[12] Al riguardo, si veda M. Lippiello-S. Guerra, Acquisizione e diffusione di audio, foto e video delle Forze dell’Ordine e dei privati nelle attività di polizia (II parte), in «Sicurezza e Giustizia», n. 1, 2024, p. 51. A differenza dei codici identificativi, l’uso delle bodycam potrebbe essere reso obbligatorio in Italia nel futuro prossimo, in quanto annunciato quale oggetto di un emendamento del c.d. ddl “Sicurezza”,  con le seguenti motivazioni: tutela dell’incolumità degli operatori e utilità per individuare gli aggressori degli agenti e i violenti nei cortei.

[13] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU42947 (ultima visita il 20.08.2024).

[14] Art. 20 (Riconoscimento in servizio), D.P.R. 792/1985 (Approvazione del regolamento di servizio dell’Amministrazione della pubblica sicurezza): «Il personale della Polizia di Stato durante il servizio d’istituto è tenuto ad indossare l’uniforme secondo le modalità previste dal decreto ministeriale di cui all’ultimo comma dell’art. 30 della legge 1 aprile 1981, n. 121. Il personale autorizzato a svolgere il servizio d’istituto in abito civile, nel momento in cui debba far conoscere la propria qualità o allorché l’intervento assuma rilevanza esterna, ha l’obbligo di applicare sull’abito in modo visibile una placca di riconoscimento, le cui caratteristiche sono determinate con il suddetto decreto ministeriale, e di esibire la tessera di riconoscimento, ove richiesto» (https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.del.presidente.della.repubblica:1985-10-28;782 – ultima visita il 20.08.2024).

[15] Art. 64, Regolamento Generale per l’Arma dei Carabinieri: «I militari autorizzati ad usare l’abito civile devono sempre portare seco e custodire accuratamente la relativa autorizzazione e la tessera personale di riconoscimento. In caso di smarrimento, devono informare il superiore diretto [comma 1]. Terminata l’operazione, oppure scaduto il termine l’autorizzazione è restituita al comando che l’ha concessa e conservata nel carteggio della stazione [comma 2]. In caso di bisogno, l’autorizzazione può essere prorogata [comma 3]» (https://www.carabinieri.it/docs/default-source/amministrazione-trasparente/regolamento-generale-per-l’arma.pdf?sfvrsn=6901e223_0#page=39 – ultima visita il 20.08.2024).

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