di Andrea Girella
[vc_row] [vc_column width=”5/6″] Corte di Cassazione, Sezione III Penale, sentenza n. 41038 del 16 giugno 2014 e depositata il 2 ottobre 2014L’uso delle armi o di altri mezzi di coazione deve costituire extrema ratio nella scelta dei metodi necessari per l’adempimento del dovere: diventa cioè legittimo solo ove non vi sia altro mezzo possibile. Ed è regola di condotta irrinunciabile quella di graduare l’uso dell’arma secondo le esigenze specifiche del caso e sempre in ambito di proporzione, sicché è sempre il criterio della proporzione che deve guidare il pubblico ufficiale al quale si chiede, senza che debba rinunziare all’adempimento del dovere di ufficio, di conseguire lo scopo con il minor sacrificio del contrapposto interesse. [/vc_column][vc_column width=”1/6″]
L’art. 192 del Codice della Strada (oltre CdS) dispone – fra gli altri – l’obbligo per chi circola sulle strade di fermarsi qualora gli venga intimato l’ “alt” da coloro che espletano i servizi di polizia stradale (ex art. 12 CdS), prevedendo sanzioni amministrative in caso di inottemperanza al predetto ordine. Nell’ipotesi di Tizio, che alla guida di un veicolo, per sottrarsi al controllo veicolare da parte di una pattuglia di polizia che ritualmente gli intima di fermarsi, prosegue la marcia a tutta velocità, compiendo una serie di manovre rischiose e/o vietate tali da porre in pericolo l’incolumità di potenziali utenti della strada, è possibile usare legittimamente l’arma d’ordinanza? O tale condotta può integrare solo il delitto ex art. 337 c.p. (Resistenza a un pubblico ufficiale)?
Per integrarsi la fattispecie prevista dall’art. 337 c.p. la condotta da parte di Tizio può consistere in un duplice comportamento: violenza o minaccia. La minaccia viene costantemente qualificata come prospettazione di un pregiudizio ingiusto e futuro dipendente dalla volontà dell’agente, in conseguenza del comportamento del pubblico ufficiale (oltre, p.u.) di mancata adesione alla “volontà” del singolo. La definizione della condotta violenta da parte della dottrina è ancora dibattuta, mentre è meno complessa la posizione della giurisprudenza, il cui orientamento prevalente è nel senso che la violenza è considerata solo sotto il profilo della idoneità ad impedire o turbare l’attività del p.u., senza che sia necessario che lo stesso riporti delle lesioni o delle conseguenze dannose a seguito della condotta delittuosa subita (Cass., 6.11.2013, n. 46743).
Per la dottrina assolutamente maggioritaria rientra nella mera disobbedienza – penalmente irrilevante – la c.d. violenza impropria, intendendo quelle condotte ostruzionistiche che non hanno contenuto di violenza, in quanto manifestanti il solo intento di non collaborare con il p.u. e non la volontà di aggredire il bene tutelato (cioè, il compimento dell’azione doverosa). La giurisprudenza, a differenza della dottrina, riconosce valenza penale anche alla violenza impropria, ritenendo lecita solo la semplice resistenza passiva, intesa come negazione di ogni violenza e minaccia. Relativamente alla problematica della fuga occorre soffermarsi sulle modalità in cui tale condotta si è realizzata: a) intesa come mero allontanamento dal luogo ove si trova il p.u., al fine di evitare lo stesso, non realizza il reato di resistenza (Cass., Sez. VI, 8.7.2002); b) le situazioni in cui il privato assume un comportamento idoneo ad opporsi all’atto che il p.u. (o l’incaricato di pubblico servizio) sta compiendo/si accinge a compiere sono ipotesi ritenute penalmente rilevanti dalla giurisprudenza. Per la quest’ultima, è integrata la fattispecie ex art. 337 c.p. quando il soggetto conducente di un veicolo ometta di fermarsi all’intimazione di alt e:
- compia una serie di manovre finalizzate a impedire l’inseguimento, così inducendo nell’inseguitore una percezione di pericolo per la propria incolumità;
- tenti la fuga in macchina mettendo in pericolo, a causa della guida spericolata, la vita di terze persone (Cass., 16.7.2012, n. 28477);
- con condotta idonea ad opporsi in modo concreto ed efficace all’atto che legittimamente sta compiendo il p.u., si dia alla fuga ad elevata velocità e – per eludere l’inseguimento – effettui manovre di guida tali da produrre situazioni di grave e generale pericolo per l’operante e altri utenti stradali (ad esempio, senza fermarsi agli incroci e senza rispettare i segnali di stop e la presenza di veicoli e pedoni – Cass., 22.5.2012, n. 46239). Peraltro, il Supremo Collegio ha statuito che in caso di incidente mortale per una fuga dalla polizia, la condotta del conducente integra il reato di omicidio volontario;
- si diriga con la propria auto contro/in direzione del p.u. (Cass., Sez. II, 26.6.1992; Cass., 7.1.2015, n. 22910) anche se non viene investito solo perché si sposta prontamente ovvero poiché il mezzo non procedeva a forte velocità, circostanza questa che non incide sulla valenza minacciosa della condotta).
Come emerge dal sintetico elenco, la materialità del delitto di resistenza ex art. 337 c.p. è riconosciuta anche nella violenza cosiddetta impropria che – pur non aggredendo direttamente il p.u. – si riverbera negativamente sullo svolgimento della relativa funzione pubblica, impedendola o unicamente ostacolandola (Cass., 22.5.2012, n. 46239).
Tornando al quesito iniziale, va ricordato che nel nostro ordinamento sono presenti alcune disposizioni di legge a carattere speciale che consentono l’uso delle armi contro chi si sottrae con la fuga ad una intimazione (o all’arresto) come in materia di contrabbando (L. 4.3.1958 n. 100 ) o di passaggio abusivo delle frontiere (Cass., 26.3.1998. Cfr. art. 158 TULPS). In ambito generale, invece, l’uso delle armi contro chi si sottrae con la fuga ad una intimazione (o all’arresto) non è legittimo perché esso richiede – fermi restando gli altri elementi indicati nell’art. 53 c.p. – che nei confronti del p.u. si sia posta in essere una resistenza attiva (Cass., Sez. IV, 15.2.1995).
L’interpretazione dottrinale in senso restrittivo del contenuto dei concetti di violenza e resistenza attribuisce rilievo solo alle condotte tali da tradursi in fatti dotati di rilevanza penale ai sensi degli artt. 336 e 337 c.p., escludendo, più in generale, che la mera resistenza passiva o la fuga possano rientrare fra le condotte di resistenza rilevanti per l’applicazione dell’art. 53. Anche in giurisprudenza è assai frequentemente negata la rilevanza della resistenza passiva e della fuga ai fini della applicazione dell’art. 53 c.p. (Cass., Sez. IV, 15.2.1995). Tuttavia, atteso che il p.u. è tenuto ad adempiere al dovere d’ufficio (non essendogli riconosciuta – come nel caso della legittima difesa o dello stato di necessità – un’opzione di rinuncia), la fuga del soggetto non può escludere in assoluto l’esistenza della scriminante ex art. 53 c.p. essendo necessario procedere alla valutazione delle modalità con le quali la fuga stessa è realizzata. Infatti, se dovesse ritenersi che queste siano tali da porre a repentaglio l’incolumità di terze persone (realizzandosi, così, una resistenza attiva) la giurisprudenza ha ritenuto legittimo l’uso delle armi/altro mezzo di coazione se:
- viene scelto quello meno lesivo, graduato secondo le esigenze specifiche del caso, nel rispetto del fondamentale principio di proporzionalità (Cass., 15.11.2007, n. 854);
- non vi sia altro mezzo di coazione possibile (Cass., 16.6.2014, n. 41038 ) di pari efficacia ma meno rischioso (Cass., 7.6.2000, n. 9961).
È stato valutato (Cass., n. 9961/2000 ) che, siccome la fuga integra un’ipotesi di resistenza illecita, l’uso delle armi contro le persone allo scopo di reprimerla può essere considerato ammissibile ogni volta che la fuga stessa sia attuata in condizioni e con modalità tali da costituire un attentato particolarmente grave a beni giudicati di rilevante importanza dall’ordinamento. Con sentenza della Cassazione del 16.6.2014, n. 41038, è stato affermato che perché possa essere integrata la scriminante, il ricorso all’uso delle armi deve costituire l’extrema ratio nella scelta dei mezzi necessari per l’adempimento del dovere, essendo esso ammissibile solo quando non sono praticabili altre modalità d’intervento né sono superati i limiti di gradualità dettati dalle esigenze del caso concreto ed è inoltre rispettato il principio di proporzione, inteso come necessario bilanciamento tra interessi contrapposti in relazione alla specifica situazione. Verificandosi tale ipotesi, ed accertata quindi la legittimità dell’uso dell’arma, nella specifica forma prescelta dal pubblico ufficiale, non può farsi poi carico a quest’ultimo dell’evento diverso e più grave da lui prodotto, rispetto a quello preventivato, quando tale evento non sia riconducibile a negligenza o imperizia, ma all’ineludibile componente di rischio che l’uso dell’arma in sè comporta.
Tuttavia, se si travalicano i limiti imposti dalla legge (o dall’ordine della Autorità o dalla necessità, anche desumendolo dal numero dei colpi sparati contro il veicolo del fuggitivo, dalle parti del veicolo attinte dagli spari, dalla modalità di impiego dell’arma, ecc.) si applica l’art. 55 c.p. (Eccesso colposo).
In sostanza, in una situazione nella quale sussistevano i presupposti della scriminante, l’oltrepassare i limiti imposti dalla necessità, concretizza l’eccesso dell’uso dei mezzi (Cass., 15.12.2004, n. 7649 ); infatti, l’art. 55 c.p. regola l’ipotesi particolare di errore sulla scriminante, allorché l’agente, fino a un certo punto del suo svolgimento, è sorretto da una causa di giustificazione effettivamente esistente; mentre, in una fase successiva è accompagnato dalla mera putatività di un elemento della scriminante della quale vengono in realtà ecceduti i limiti (cd. eccesso modale – Cass., 24.9.1991). La Suprema Corte ha ritenuto, altresì, che l’esimente putativa dell’uso legittimo delle armi può ravvisarsi quando l’agente abbia creduto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove fosse stata realmente esistente, egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi.
Concludendo, poiché l’esimente prevista all’art. 53 postula congiuntamente l’uso dell’arma e la necessità di vincere una resistenza attiva, nonché un rapporto di proporzione, risponde di omicidio colposo ex art. 589 c.p. il p.u. che abbia usato l’arma quando la resistenza oppostagli sia meramente passiva e altri mezzi fossero possibili per respingere la violenza o vincere la resistenza.©
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