Problematiche connesse all’esecutività civile delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale

di Ornella Attisano

Motu proprio del Sommo Pontefice Francesco “Mitis iudex Domimus Iesus” – 15 agosto 2015

È stata varata la riforma del processo canonico di nullità matrimoniale, con due lettere in forma di Motu proprio promulgate da Papa Francesco il 15 agosto 2015 e pubblicate l’8 settembre. Le nuove norme sono entrate in vigore a partire dall’8 dicembre 2015. Si tratta dei documenti “Mitis iudex Domimus Iesus” e “Mitis et misericors Iesus”, che intervengono rispettivamente sulle procedure previste dal Codice di diritto canonico della Chiesa latina e dal Codice dei canoni delle Chiese orientali. Tra gli aspetti più importanti della riforma la modifica della composizione dei Tribunali, con il Vescovo diocesano che assume maggiori responsabilità come giudice della sua chiesa particolare, l’abolizione del principio della doppia sentenza conforme, l’istituzione di un rito speciale molto più celere quando la causa è proposta congiuntamente da entrambe le parti.


 

Premessa

L’8 settembre 2015 è stato pubblicato il Motu Proprio del Santo Padre “Mitis Iudex Dominus Iesus”, sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, la cui entrata in vigore è avvenuta l’8 dicembre 2015. La riforma in esame ha sollevato non pochi (vieppiù legittimi) dubbi fra i giuristi del settore in riferimento alle pronunce dei vescovi che, non offrendo ragguardevoli garanzie di tutela al diritto di difesa delle parti ed all’ordine pubblico, ostano alla esecutività civile delle medesime.

Nel soppesare le esigenze della giustizia con il regime del processo celere, da celebrarsi dinanzi al vescovo diocesano, la riforma è stata ritenuta “contraddittoria ed incoerente”, per quella velata indeterminatezza del diritto e della ricerca della verità fattuale – oltre che processuale – sì da correre il rischio di arrecare inevitabile vulnus ai diritti delle parti nel processo per l’assenza di un giusto processo legittimato dal contraddittorio. La questione si pone, di fatti, maggiormente con l’introduzione del processo più breve, in alternativa a quello ordinario, giacché di competenza esclusiva e diretta del vescovo, investito dallo specifico munus giudicandi, quale giudice monocratico, in assenza di contraddittorio, senza l’obbligo dell’assistenza di un legale e con una valutazione parziale e discrezionale delle confessioni, rectius “dichiarazioni” delle parti. La riforma del Romano Pontefice ha, in un certo qual senso, restituito legittimamente al vescovo la funzione giurisdizionale piena e privilegiata prevista dal diritto della Chiesa, ma l’esercizio della propria potestà in ambito giurisdizionale richiede da parte del vescovo diocesano la massima prudenza nell’acquisizione delle prove ed un sommo equilibrio nella decisione.

A parte queste superiori osservazioni, anche per quanto attiene la prassi applicativa nel processo ordinario, rileva evidenziare che sebbene il motu proprio abbia introdotto significative novità in punto di celerità, gratuità del processo, libertà di coscienza, ha disposto l’introduzione del canone 1678 e dell’art. 14 delle regole procedurali che hanno sollevano critiche attinenti – rispettivamente – alla valutazione delle prove, per il riconoscimento del valore di “prova piena” strictu sensu sia alla confessione giudiziale sia alle dichiarazioni delle parti, solo eventualmente sostenute dalle testimonianze, oltre che ai meri “indizi”, che non potranno essere “prove piene” e della individuazione dilatata e non previamente tipizzata delle “circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità”, che sgombra il campo all’ingresso di  nuove e diverse fattispecie di nullità, giuridicamente opinabili, quali, ad esempio l’assenza di fede nei nubendi.

Fra pareri oppositori e dibattuti, a più di nove mesi dall’entrata in vigore della riforma del processo matrimoniale canonico, la prassi dei tribunali ecclesiastici regionali e diocesani ha registrato un regime transitorio incerto, che incontra certamente taluni limiti di diritto sostanziale e processuale in sede di delibazione delle pronunce sulla declaratoria di nullità matrimoniale dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente.

 

1.     Esecutività civile e riserva di giurisdizione

Lo Stato italiano riconosce alla giurisdizione ecclesiastica la riserva di competenza nelle cc.dd. res mixtae, fra le quali rientra il matrimonio concordatario, ovvero contratto in facie ecclesiae cui sia seguita trascrizione ai fini civili. Il principio è sancito dall’articolo 8, n. 2, dell’Accordo del 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, il quale stabilisce che – a domanda della parte interessata – il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, quale massimo organo giudiziale di controllo dell’ordinamento ecclesiastico, emette il decreto di esecutività della sentenza canonica di nullità del matrimonio celebrato con il rito concordatario.
Unitamente alla norma richiamata, la Lex propria Supremi Tribunalis Signaturae Apostolicae, data con Motu proprio da Benedetto XVI nel 2008, rappresenta la fonte attraverso la quale è indicato l’iter di emanazione del decreto di esecutività. Nella questione in esame, essendo l’attestazione sulla potenziale efficacia in sede civile della sentenza di nullità del matrimonio riservata dalla legge esclusivamente alla Segnatura Apostolica, si discute circa l’attuabilità da parte del prefato Supremo organo di controllo dell’accertamento di esecutività della sentenza emessa dal giudice monocratico, di fronte alle insuperabili barriere preclusive disposte dalla norma civile in materia di delibazione. Il nodo della questione risiede giustappunto nella valenza attribuita dall’ordinamento canonico al processo breve celebrato dinanzi all’ordinario diocesano, in ragione del diritto delle parti di spiegare domanda dinanzi alla Corte d’Appello competente spendendo il decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica ai fini della declaratoria di efficacia nell’ordinamento italiano della pronuncia ecclesiastica. Segnatamente, sebbene in maniera meno intensa, il problema persiste anche per quanto afferisce l’esecutività delle sentenze emesse dall’organo ecclesiastico collegiale, secondo il rito ordinario, giacché la recente riforma travolge il tradizionale impianto di acquisizione e valutazione delle prove.

 

2.     La delibazione in Corte d’Appello: presupposti processuali ed aspetti sostanziali

Per chiarire meglio la portata del processo di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità, giova evidenziare che alcun automatismo è previsto o contemplato dall’ordinamento civile per dichiarare l’efficacia alla pronuncia di un diverso ordinamento giuridico, tal ché il giudizio si rifletterà sui presupposti sostanziali e processuali indispensabili, siccome enunciati dall’art. 797 c.p.c., in combinato disposto con il citato art. 8, n. 2, dell’Accordo del 1984 tra l’Italia e la Santa Sede, che ha revisionato gli storici Patti lateranensi del 1929.

Il bilanciamento degli interessi fra le rispettive parti sottoscrittrici salvaguarda in ogni caso sia il principio cattolico dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale sia il sindacato ad opera dello Stato Italiano circa il rispetto dell’ordine pubblico e del contraddittorio, quali valori irrinunciabili della Carta costituzionale della Repubblica. Se scopo del Motu Proprio è quello di accordare ai divorziati cattolici, civilmente risposati o stabilmente conviventi, di superare la propria condizione irregolare di fedeli e potersi riavvicinare alla Chiesa di Cristo ed accostare all’eucaristia, attraverso un procedimento di nullità dai tempi compressi, l’obiettivo dell’istanza di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale (da inoltrarsi presso la Corte di appello competente per territorio, che va individuata in quella nel cui distretto si trova il Comune ove fu trascritto il matrimonio stesso) è quello di subordinare la pronuncia canonica munita del decreto di esecutività ad una dettagliata sequenza di controlli giudiziali – e non amministrativi –  siccome disposti dall’ordinamento statuale.

Ai fini della sua indagine, la Corte di appello dovrà precipuamente verificare che, nel procedimento innanzi al competente tribunale ecclesiastico, sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio, in modo non difforme dai princìpi dell’ordinamento italiano; che la sentenza ecclesiastica non contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano. Lo svolgimento del giudizio di delibazione dinanzi alla Corte di appello di una declaratoria di nullità del matrimonio pronunciata dal tribunale ecclesiastico (secondo quanto richiesto dall’art. 4, lett. b), del protocollo addizionale all’accordo tra Repubblica italiana e Santa Sede del 18 febbraio 1984, esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121) è subordinato alle regole del procedimento ordinario di cognizione, ivi comprese quelle relative al diritto di difesa e di resistere in giudizio, talché le medesime garanzie dovranno essere concesse dinanzi al giudice ecclesiastico, secondo una elaborazione comune alle democrazie sovra statuali europee, le quali ritengono il “giusto processo” il luogo naturale entro il quale le parti possono vedere soddisfatte le proprie istanze di giustizia nel rispetto dei loro diritti fondamentali.

A questo punto, rimane dibattuto il problema se parimenti al sistema giudiziario di accertamento dell’ordinamento civile, quello canonico – per come riformato dal Motu Proprio – accordi anche ex post altrettante garanzie nell’accertamento della verità, avuto riguardo ai principi ed alle fonti della legge della Chiesa universale ed ai diritti fondamentali dei fedeli. ©

 

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