di Angela Gabriele
Corte di Cassazione, Sezione I penale, sentenza n. 16712 del 22 gennaio 2014 e depositata il 16 aprile 2014
La suprema Corte ha stabilito che, ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa. Ai fini della valutazione non può non tenersi conto dell’utilizzazione di un social network (nel caso di specie, Facebook), a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla stessa cerchia lavorativa della persona offesa dal reato, né la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona.
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Nato nel febbraio 2004, il social network Facebook già da tempo ha ormai oltrepassato il miliardo di utenti attivi ed è il sito più visitato al mondo, superando addirittura Google. L’Italia è tra i Paesi con più utenti registrati in rapporto alla popolazione residente. È quindi un mezzo di comunicazione molto potente e, pur con le diverse opzioni di privacy offerte da tale servizio di rete, quanto viene pubblicato è sicuramente visibile a più di due persone ed è potenzialmente fruibile da un numero indeterminato nel mondo.
Queste premesse sono d’obbligo per comprendere la portata delle dichiarazioni “postate” su Facebook. Ciò non sfugge alla giurisprudenza che di recente si è dovuta occupare sempre più del reato di diffamazione consumato su tale social network. Tale reato, rientrante tra i delitti contro la persona (in particolare l’onore, la reputazione), è disciplinato innanzitutto dagli artt. 595 e 596 c.p. Si consuma nell’istante in cui il soggetto agente rende fruibile a persone indistinte un’offesa nei confronti di un terzo al momento assente ma che, quale soggetto passivo, deve essere identificabile.
Quando è a mezzo stampa, il reato si verifica con la prima diffusione dello stampato. A tal proposito, la diffamazione effettuata via stampa è una circostanza aggravante (artt. 595, 3° c., e 596bis c.p.) tant’è che esistono gli specifici artt. 57, 57bis, 58 e 58bis del codice penale in merito a tale fattispecie con cui si è inteso responsabilizzare chi sovrintende le pubblicazioni periodiche e non (direttore, vice-direttore, editore, stampatore). Trattandosi di un reato di pericolo è logico che la diffamazione difronte ad un numero indistinto ed indeterminato di persone abbia una maggiore gravità. Per analogia, prima la radio e la televisione, poi Internet, sono stati ritenuti mezzi di comunicazione di massa come la stampa, anzi a ben guardare sono molto più penetranti di quest’ultima. Con la capillare diffusione di Internet, negli ultimi venti anni, si sta discutendo se sia il caso di emettere una normativa ad hoc, ma in attesa di eventuali novità in tal senso, la giurisprudenza ha dovuto “adeguare” quella esistente.
Per esempio il momento consumativo del reato in Internet è stato preso in esame da Cass. Pen., Sez. V, 25/07/2006, n. 25875 giungendo ad affermare: “va chiarito che, quando una notizia risulti immessa sui cc.dd. media, vale a dire nei mezzi di comunicazione di massa (cartacei, radiofonici, televisivi, telematici ecc.), la diffusione della stessa, secondo un criterio che la nozione stessa di “pubblicazione” impone, deve presumersi, fino a prova del contrario. Il principio non può soffrire eccezione per quanto riguarda i siti web, atteso che l’accesso ad essi è solitamente libero e, in genere, frequente (sia esso di elezione o meramente casuale), di talché la immissione di notizie o immagini “in rete” integra la ipotesi di offerta delle stesse in incertam personam e dunque implica la fruibilità da parte di un numero/solitamente elevato (ma difficilmente accertabile) di utenti” … “la diffamazione, che è reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato” (in precedenza, nello stesso senso, Cass. 27 dicembre 2000 n. 4741). A completamento Cassazione n. 16262 del 17/04/2008 osserva: “é altrettanto vero che quando il sito web sul quale viene effettuata l’immissione sia per sua natura destinato ad essere normalmente visitato da un numero indeterminato di soggetti, come appunto avviene nel caso (ricorrente nella specie) di un giornale redatto in forma telematica, deve necessariamente presumersi che all’immissione faccia seguito, in tempi assai ravvicinati, il collegamento da parte di lettori, non diversamente da quanto deve presumersi nel caso di un tradizionale giornale a stampa, nulla rilevando l’astratta e teorica possibilità (del tutto analoga a quella evocata nel ricorso con riguardo al sito web) che esso non venga né acquistato né letto da alcuno”.
La prima sentenza di merito, in ambito civile, che notoriamente si è occupata in Italia di ingiurie su Facebook è quella del Tribunale di Monza, Sezione 4 civile, 2 marzo 2010, n. 770. Il fatto esaminato riguardava offese pubblicate da un giovane su una chat di Facebook nei confronti di una ex che – a dire dello stesso – lo perseguitava con messaggi perché non si rassegnava alla fine della loro relazione. In tale decisione vi è una disamina ampia delle origini, degli scopi e del funzionamento del social network per eccellenza e, in particolare, si afferma: “”Fa.”, , come detto, include alcuni servizi tra i quali la possibilità per gli utenti di ricevere ed inviare messaggi e di scrivere sulla bacheca di altri utenti e consente di impostare l’accesso ai vari contenuti del proprio profilo attraverso una serie di “livelli” via via più ristretti e/o restrittivi (dal livello “Tutti” a quello intermedio “Amici di amici” ai soli “Amici”) per di più in modo selettivo quanto ai contenuti o alle stesse “categorie” di informazioni inserite nel profilo medesimo. Quindi, agendo opportunamente sul livello e sulle impostazioni del proprio profilo, è possibile limitare l’accesso e la diffusione dei propri contenuti, sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. È peraltro nota agli utenti di “Fa.” l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività di c.d. “tagging” (tradotta in lingua italiana con l’uso del neologismo “taggare”) che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in chat, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network. I gestori del sito (statunitensi, secondo la Polizia Postale), pur reputandosi proprietari dei contenuti pubblicati, declinano ogni responsabilità civile e/o penale ad essi relativa (come dimostra, eloquentemente, una recentissima e dibattuta controversia giudiziaria riguardante il motore di ricerca “Go.”). In definitiva, coloro che decidono di diventare utenti di “Fa.” sono ben consci non solo delle grandi possibilità relazionali offerte dal sito, ma anche delle potenziali esondazioni dei contenuti che vi inseriscono: rischio in una certa misura indubbiamente accettato e consapevolmente vissuto”. Tali valutazioni sono un valido riferimento anche da un punto di vista penale. Emerge chiaramente l’uso pericoloso che può farsi di questo social network.
Un’altra nota sentenza di merito, stavolta penale, che si è occupata dell’uso “improprio” di Facebook è quella del Tribunale di Livorno – GIP – 31 dicembre 2012, n. 38912. In questo caso si tratta di un messaggio ingiurioso e di “cattiva pubblicità” nei confronti di un centro estetico e del suo titolare da parte di una ex dipendente licenziata dal medesimo. Dopo una disamina sul social network molto simile a quella delineata dal Tribunale di Monza, schematizza chiaramente gli elementi in base a i quali si può configurare il reato di diffamazione in tale fattispecie. “Della diffamazione sussistono tutti gli estremi essenziali: • la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose (nel caso di specie la (omissis) ha espressamente fatto riferimento al Centro Estetico (omissis) nel quale ha lavorato come dipendente); • la comunicazione con più persone alla luce del cennato carattere “pubblico” dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione; • la coscienza e volontà di usare espressioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo. Si giunge agevolmente a ritenere che l’utilizzo di Internet integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, co. 3, cp.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”.
La sentenza di Cassazione n. 16712 del 16 aprile 2014 è un po’ un punto di arrivo con l’inesorabile conferma di voler adottare una linea dura nei confronti di chi utilizza Facebook per insulti e volgarità nei confronti di terzi. I fatti si svolgono in ambito militare. Un Maresciallo capo della Guardia di Finanza pubblicava sul social network tra i dati personali del proprio profilo le seguenti frasi: “…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo… ma me ne fotto … per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”.
Si configurava una evidente offesa alla reputazione del maresciallo designato in sua sostituzione. In primo grado veniva quindi condannato per il reato di diffamazione pluriaggravata alla pena di tre mesi di reclusione militare. In appello l’imputato veniva assolto perché secondo i Giudici la identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network. Inoltre l’imputato non aveva indicato il nome del suo successore, né la funzione di comando in cui era stato sostituito, né alcun riferimento cronologico, pertanto mancava la prova di un comunicato intenzionale con più persone in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie. Il Procuratore generale presso la Corte militare di appello, con un unico motivo, ricorreva in Cassazione per violazione di legge e vizio della motivazione. In particolare, evidenziava che l’offesa alla reputazione, rilevante ai fini della diffamazione, prescinde dalle conseguenze che possono derivare o siano in concreto derivate all’interessato. Ciò che rileva ai fini del reato è l’uso di frasi inequivocabilmente offensive che pubblicate su Internet sono potenzialmente nella disponibilità di conoscenza da parte di più persone, a nulla rilevando se in concreto siano state lette.
La Cassazione ha accolto il ricorso confermando che l’individuazione del soggetto appare obiettiva ed univoca nel momento in cui si è fatto riferimento alla successione fra militari nella medesima funzione di comando, in precedenza platealmente ricoperta dall’imputato. La decisione della Corte di Appello appare in effetti non lineare, in quanto gli stessi giudici di secondo grado prima ammettono la sussistenza dall’aggravante dell’utilizzo del mezzo di pubblicità, affermano che la frase è stata inserita sul profilo di Facebook (sezione accessibile pressoché a chiunque sia registrato su tale social network o almeno agli “amici”, cerchia comunque ampia di soggetti) e poi contraddittoriamente sostengono che la individuazione del militare offeso era possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network ed, in particolare, soltanto dai militari appartenenti alla compagnia della Guardia di finanza dell’imputato. Tra l’altro tutti gli altri elementi evidenziati dal Procuratore (le parole “attualmente”, “collega” e “defenestrazione”) concorrono ad una individuazione univoca e agevole. Ma principlamente la Cassazione osserva “D’altro canto, ribadito che ai fini della integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa (Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010, rv. 249601), i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per le quali il limitato numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione della prova della volontà del (OMISSIS) di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato. Ed invero, il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. Ed ai fini di detta valutazione non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network – come, del resto la stessa Corte di appello ha evidenziato – a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di finanza, né la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona”.©
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