di Claudia Barbiera
La visione del corpo della donna come un oggetto, il cui possesso e la cui gestione sono affidati a mani esclusivamente maschili, è antica come la storia dell’umanità. Il primo proprietario di questo oggetto, di questo vero e proprio bene che è appunto il corpo della donna, è il padre. Il marito è il padrone per eccellenza del corpo della donna. La donna è anche preda di guerra.
La violenza contro le donne appartiene alla storia stessa del genere umano: «è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne». Il rapporto tra uomo e donna, infatti, non è mai stato un rapporto alla pari, ma ci sono sempre state delle disuguaglianze, delle asimmetrie al suo interno: la donna è, infatti, da sempre considerata come inferiore all’uomo, rappresenta il sesso debole, che, in quanto tale, viene schiacciato da quello maschile, al quale risulta subordinato in ogni ambito della vita sia pubblica che privata. Ed è proprio in questa visione del rapporto uomo-donna come contrapposizione sesso forte-sesso debole che affondale sue radici la violenza maschile contro le donne: la violenza viene vista infatti come una manifestazione, quella per eccellenza, della forza maschile, e quindi, quando esercitata contro le donne, della supremazia del sesso forte sul sesso debole.
Nel corso della storia, la violenza sulle donne si è presentata con modalità e tipologie assai diverse: si va dalla violenza fisica alla violenza psicologica, la violenza economica, per arrivare infine alla più «intima e per questo più insopportabile violenza», la violenza sessuale.
La violenza sessuale gioca un ruolo fondamentale nella storica perpetrazione della condizione di subalternità delle donne rispetto agli uomini, in quanto rappresenta «l’emblema del potere maschile, la manifestazione violenta della maggiore forza fisica degli uomini rispetto alle donne.»: il corpo della donna viene violato, perde la sua dignità e diventa un oggetto, mero strumento di raggiungimento del piacere sessuale maschile. Il suo consenso non ha alcun peso, o addirittura si scambia con un’espressione di consenso quella che è invece semplicemente una silenziosa sopportazione della violenza da parte della donna, che ha paura di subire danni peggiori e dunque soffoca la sua volontà, piegandosi a quella dell’aggressore: «Tutte le donne vogliono essere stuprate. Nessuna donna può essere violentata contro la sua volontà. Se l’è voluto». Ed è proprio in questa inversione di responsabilità, che va sempre ricercata nella figura della donna e mai in quella del suo aggressore, che sta l’aspetto più terribile di questo tipo di violenza: è la donna che se l’è voluto, è la donna che vuole essere stuprata. L’uomo è soltanto una vittima: vittima, prima, delle provocazioni della donna, rintracciabili nel suo comportamento o semplicemente nella sua fisicità, e poi delle sue bugie, nel momento in cui ella nega che «vis grata puellae», che quella violenza sessuale in realtà la voleva e che dunque la sua era solo una falsa accusa da cui l’uomo doveva difendersi. E questo totale capovolgimento della situazione, questa radicale inversione di ruoli, rappresenta un aspetto assolutamente peculiare del modo di vedere la violenza sessuale contro le donne, sia in passato che nell’attualità. Infatti, nonostante le enormi conquiste che le donne hanno ottenuto a partire dagli anni ’70 del ‘900 fino ad arrivare ai giorni nostri, tuttavia «sono ancora molti i retaggi culturali che permangono e che connettono inestricabilmente lo stupro al possesso, alla castità, alla verginità, alla morigeratezza dei costumi femminili. […] è forse giunto il momento di passare dalla fase “di rappresaglia” a una piena assunzione di responsabilità rispetto ai temi urgenti del nostro tempo, per rifondare il nostro pactum unionis su una vera democrazia di genere. Istruzione, inclusione, cultura sono le armi più potenti per vincere questa battaglia».
1. Il padre-custode: il valore della verginità e il matrimonio riparatore
La visione del corpo della donna come un oggetto, il cui possesso e la cui gestione sono affidati a mani esclusivamente maschili, è antica come la storia dell’umanità. Il primo proprietario di questo oggetto, di questo vero e proprio bene che è appunto il corpo della donna, è il padre. Capo assoluto della famiglia, organizzata sin dall’antichità secondo la struttura sociale del patriarcato, che lo vede in una posizione di supremazia rispetto a moglie, figli e a tutti gli altri soggetti che coabitano con lui, il padre svolge il ruolo di custode della verginità della figlia. A dare valore al corpo femminile è infatti proprio la verginità: «questa “qualità”, segno morfologico di una rispettata proprietà familiare, carta vincente per una conveniente collocazione sociale, costituì certo un bene economicamente apprezzabile e, come tale, suscettibile di contrattazioni private e di liquidazione giudiziale». Per assicurare alla figlia una buona collocazione sociale, il padre-custode doveva dunque proteggere la purezza del suo corpo, affinché potesse avere un valore maggiore nel mercato matrimoniale, all’interno del quale sarebbe poi stato trasferito da un proprietario all’altro, dal padre al marito. In quest’ottica, lo stupro veniva quindi visto come «il furto della verginità di una giovane ai danni del padre, un’azione tesa cioè a deteriorare una merce prima che arrivasse sul mercato matrimoniale».
Questa tipologia di stupro, che comportava quindi la violazione della verginità della donna, si configurava come un «crimine perpetrato da un uomo nei riguardi della proprietà di un altro uomo» e proprio per questo, proprio perché era l’uomo, in quanto proprietario di questo bene, la parte offesa, venne sin da subito riconosciuto come reato e dunque punito. Già nel mondo romano esso veniva disciplinato da norme estremamente severe: «la Lex Julia de adulteriis qualificò come stupro il coito illecito con la vedova, il puer, la vergine, e dettò per esso severe sanzioni: la confisca di metà patrimonio o, nel caso di soggetti di umile condizione, la punizione corporale o l’esilio.». Tuttavia, le più antiche prescrizioni sulla sottrazione della verginità prevedevano in realtà come forma di risarcimento per eccellenza, in caso di violazione della vergine,il matrimonio riparatore per la donna e il pagamento di una somma, a metà tra dote e prezzo della sposa, per il padre-custode: riecheggiate in analoghe disposizioni delle legislazioni alto-medievali, esse vennero riprese negli statuti dell’Italia comunale, per poi affermarsi negli ordinamenti giuridici dell’Europa tardo-medievale e moderna attraverso il loro inserimento nel Corpus Juris canonici, una sorta di codice che la Chiesa medievale aveva creato raccogliendo svariate norme e decreti papali. Queste prescrizioni affondavano le loro radici nella tradizione biblica: «giudici ed avvocati non mancavano di citare con sussiego gli antichi obblighi che la Bibbia, in alcuni passi dell’Esodo e del Deuteronomio, imponeva al defloratore della vergine: “ne pagherà la dote nuziale ed essa diverrà sua moglie”; “darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; essa sarà sua moglie”».
Nato dunque nella tradizione biblica, il matrimonio riparatore sopravvisse fino al secolo scorso: il reato di violenza sessuale si estingueva, quindi, con una facilità immensa, dal momento che bastava semplicemente che il colpevole si rendesse disponibile a sposare la vittima, spesso minorenne, e nella maggior parte dei casi addirittura sotto sollecitazioni dei familiari della ragazza, che non vedevano altra strada per ripristinare il loro onore perduto. A perdere l’onore, infatti, era solo la donna. Il matrimonio riparatore era previsto persino nel nostro codice penale,disciplinato dall’art. 544. L’articolo rimase in vigore fino al 1981, anno in cui fu finalmente abrogato con la legge 442, dopo che tante ragazze nella nostra penisola si rifiutarono di ricorrere al matrimonio riparatore, seguendo l’esempio di Franca Viola: «Franca Viola fu rapita e violentata da un mafioso locale nel 1965, ad Alcamo, ma dopo il suo rilascio si rifiutò di sposare il suo aguzzino. Si ribellò per la prima volta nel nostro Paese alla falsa idea di tutela dell’onore e della famiglia a scapito della felicità della sua vita futura. Franca Viola si ribellò ad un destino triste e ingiusto e decise che la violenza subita e il dolore che da essa ne era scaturito dovevano bastare.».
2. Un possesso esclusivo del marito: la cintura di castità, il debitum coniugale e lo stupro coniugale
Il marito è il padrone per eccellenza del corpo della donna. Una classica espressione di questa idea che il corpo della moglie fosse proprietà del marito, è rappresentata dal mito della cintura di castità, che si trova al centro di una novella di Giovanni Sercambi, vissuto tra Trecento e Quattrocento: un «brachieri di ferro […] un marchingegno fantasioso, una sorta di antifurto, che gli permetteva di aprire la moglie come una casa, un canterano o uno scrigno di gioielli di sua proprietà, godendone tranquillamente al sicuro dai ‘ladri’». Emblema, dunque, del diritto maschile di proprietà sul corpo della moglie e del diritto, sempre maschile, all’esclusività sessuale, la cintura di castità è tuttavia soltanto un’invenzione letteraria, dal momento che sarebbe stato impossibile per le donne indossarla senza incorrere in gravi problemi fisici e sanitari: ciononostante, tra tardo Medioevo e Rinascimento si cercò talvolta di tradurla in realtà e addirittura nella Danimarca d’età moderna venne processato un uomo che intendeva imporla alla moglie. Si trattava infatti per l’uomo di imporre un segno del proprio possesso su una cosa, quale considerava, appunto, il corpo della donna, che in realtà già gli apparteneva, ma che, dall’altro lato, doveva continuare ad appartenere solo a lui.
L’uomo esercitava, infatti, pieno potere sul corpo della moglie, «un potere capace di imporre con ogni mezzo al corpo femminile una sessualità ed una maternità non scelte ma subite»: il matrimonio si traduceva, quindi, per la donna in un’abdicazione alla proprietà del proprio corpo, da quel momento in poi gestito e manipolato solo ed esclusivamente dal marito, che la condannava a vivere la propria sessualità unicamente a fini procreativi e di adempimento a quel debitum, il debitum, appunto, coniugale, in forza del quale la moglie era costretta a sottomettersi totalmente ai desideri sessuali del marito.
«-Le mogli non provano piacere.
-Non lo devono provare […]
-Che differenza credete che ci sia tra una donna onesta e una del villino rosa?».
Anche dal punto di vista sessuale, quindi, il rapporto coniugale era caratterizzato da una fortissima asimmetria, dal momento che era soltanto la moglie a dover soddisfare i desideri sessuali del marito, era soltanto la moglie a dover adempiere al debitum coniugale: «per quelli che sono i peccati commessi nel matrimonio – asserviva, nel secolo XVIII il teologo e dottore della Chiesa napoletano Alfonso de’ Liguori – chiedete solo alle mogli se hanno osservato il loro dovere coniugale, per il resto, restate in silenzio».
Tuttavia, il concetto di debitum coniugale, com’è evidente nelle parole di Paolo di Tarso, Apostolo delle Genti, nella prima Lettera ai Corinzi,era in realtà fondato sulla reciprocità del possesso del corpo del coniuge,e, quindi, sull’eguaglianza tra uomo e donna all’interno del rapporto matrimoniale: il debitum coniugale, quindi, «era un dovere reciproco e, a rigore, .non rientrava nella potestà maritale. Di fatto, però, nel contesto antropologico patriarcale andò a configurarsi fattualmente come un dovere pretesto soltanto dal marito, anche ricorrendo all’uso della violenza». Ed è proprio su questa visione patriarcale del debitum coniugale che si è fondata la convinzione, sopravvissuta fino al secolo scorso, che lo stupro coniugale non potesse essere considerato come un reato: ancora nel 1975, per la legislazione americana, si era in presenza di stupro solo se la vittima non era la moglie del colpevole. Già l’anno seguente però, in Italia, il 16 febbraio 1976, la III sezione penale della Corte di Cassazione pronunciava una sentenza di portata storica, in cui finalmente veniva riconosciuto il principio di libertà sessuale e, quindi, il valore fondamentale del consenso nella vita sessuale anche della coppia sposata: «il coniuge non si priva incondizionatamente di disporre del proprio corpo, né perde la naturale libertà di negare la prestazione sessuale». Finalmente lo stupro coniugale veniva riconosciuto come reato, senza più considerare come scriminante il fatto che lo stupratore fosse il coniuge della vittima: «il concetto di violenza sessuale, nella oggettività della tutela apprestata dalla previsione normativa, ha una sua sostanziale ed immodificabile unitarietà che non consente di distinguere tra violenza sessuale consumata tra estranei e violenza sessuale consumata all’interno di un rapporto coniugale».
3. La donna come preda erotica: lo stupro di guerra
«La circostanza che, in linea di massima, alle donne fosse precluso il mestiere delle armi, non ne determinava certo l’esclusione dall’universo della guerra; uno spazio ove i “maschi” rappresentavano il soggetto attivo – il combattente – e le “femmine” quello passivo – la vittima – e dal quale gli uomini/guerrieri escludevano le proprie donne (estromesse dal combattimento in quanto depositarie della continuazione biologica), per includervi quelle altrui, nel ruolo di preda erotica». Un’altra tipologia di stupro che ha svolto un ruolo di protagonismo nel corso della storia è, quindi, il cosiddetto stupro di guerra, che da sempre ha accompagnato tutte le guerre del mondo, caratterizzandosi per la scelta ancora una volta della donna come vittima principale, se non addirittura unica. Stavolta, però,l’abuso compiuto sul corpo della donna non è volto a sopraffare lei in prima persona, ma serve a trasmettere questo messaggio di sopraffazione ad altri uomini, gli uomini del popolo avversario. Emblema, questo, di quanto il corpo della donna non abbia alcuna dignità e non meriti alcun tipo di rispetto nell’ottica maschile: esso viene infatti violato per demoralizzare, punire e umiliare il popolo nemico, ma l’umiliazione più grande la subisce la donna, che viene costretta a subire sulla sua pelle, sul suo corpo, sulla sua dimensione più intima, un messaggio di violenza di cui in realtà lei non è nemmeno la destinataria.
Gli stupri di guerra sono spesso sfociati nei cosiddetti stupri etnici, perpetrati nell’ultimo scorcio del secolo scorso nella ex Jugoslavia, in Ruanda, in Congo, in Sudan o in quelli etnico-politico-sociali avvenuti in America Latina. Il 19 giugno del 2008, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato, allora, la risoluzione 1820, dove veniva finalmente condannato l’uso dello stupro come arma di guerra, prevedendo dei ben precisi provvedimenti contro i responsabile di tale crimine. Sostenuta da trenta Paesi, tra cui l’Italia, la risoluzione, pur mirando alla protezione di tutte le vittime di violenza sessuale, in più punti focalizzava l’attenzione sulle donne, sottolineando che «le donne e le ragazze sono particolarmente esposte all’uso della violenza sessuale, adoperata anche come tattica di guerra per umiliare, dominare, impaurire, disperdere e/o rimuovere forzatamente gli appartenenti a comunità e gruppi etnici; e […] che la violenza sessuale perpetrata in questo modo può in alcuni casi perdurare oltre la fine delle ostilità». ©