di Simona Usai
La normativa che regola la liquidazione degli onorari, delle indennità e delle spese per il CTU, nel tempo, ha subito diverse modifiche. Da ultimo la sentenza n. 23133/2015 ha precisato che le parti sono solidalmente responsabili del pagamento.
Durante un processo il Giudice può avere la necessità di nominare un esperto che abbia specifiche competenze tecniche. In quel caso tra le varie spese processuali, si inseriscono anche quelle per il compenso dovuto al consulente tecnico d’ufficio (CTU), chiamato dal giudice a valutare le prove fornite dalle parti. La nomina del CTU deve essere, tassativamente, depositata in Cancelleria entro il termine stabilito dal Giudice (in genere, l’inizio delle operazioni peritali), e non al CTU in sede di apertura delle operazioni peritali e all’esito delle operazioni di consulenza tecnica; a seguire il CTU deposita in cancelleria, oltre alla relazione, la “richiesta di liquidazione compenso”. In tale istanza vengono indicati l’onorario, l’indennità di viaggio e soggiorno, le spese di viaggio e le spese sostenute per l’adempimento dell’incarico.
La normativa che regola la liquidazione degli onorari, delle indennità e delle spese per il CTU, nel tempo, ha subito diverse modifiche che non hanno intaccato sostanzialmente i principi ispiratori della disciplina, individuati in svariate pronunce della Corte di Cassazione e che risultano tuttora applicabili, e i quali riguardano:
- la prevalenza della natura pubblicistica dell’incarico rispetto alla determinazione delle prestazioni con riguardo alle tariffe professionali, identiche, simili o analoghe, dovendosi ritenere che “il lavoro svolto dai consulenti tecnici d’ufficio non si presta a rientrare in uno schema che involga un necessario e logico confronto tra prestazioni e retribuzione e, quindi, un qualsiasi giudizio sull’adeguatezza e sufficienza di quest’ultima” (Corte Cost. 1970 n. 88, 1996 n. 41);
- la necessità di aver riguardo “all’accertamento richiesto dal giudice e non al tipo di indagini che il consulente ha svolto per pervenire a quell’accertamento” (Cass. 8298 del 01/09/1997 Rv. 507394);
- l’esigenza che l’attività svolta sia pertinente rispetto all’incarico conferito, tanto che nel caso contrario può perfino giungersi a negare il compenso (Cass. n. 7632 del 2006 – Rv. 588180, secondo la quale compete al giudice dell’opposizione la valutazione della “rispondenza dell’opera svolta dall’ausiliario ai quesiti postigli. Ne consegue che, nel caso in cui tutto l’elaborato debba ritenersi fuori d’opera rispetto al quesito, al consulente non spetta alcun compenso”);
- la residualità del criterio di liquidazione degli onorari a vacazione, cui si può ricorrere, “anzichè quello a percentuale, non solo quando manca una specifica previsione della tariffa, ma altresì quando, in relazione alla natura dell’incarico ed al tipo di accertamento richiesti al giudice, non sia logicamente giustificata e possibile un’estensione analogica delle ipotesi tipiche di liquidazione secondo il criterio della percentuale. La decisione di liquidare gli onorari a tempo e non a percentuale è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata” (Cass. n. 17685 del 2010 rv. 614180);
- la necessità, anche in presenza di un unico incarico, di liquidare gli onorari sommando quelli relativi a ciascuno dei distinti accertamenti richiesti, riferibili a diverse materie (Cass. n. 7186 del 2007 – Rv. 596697);
- la tendenziale onnicomprensività dell’onorario “sancito dal D.M. 30 maggio 2002, art. 29, riguarda le attività complementari ed accessorie che, pur non essendo specificamente previste in sede di conferimento dell’incarico, risultano tuttavia strumentali all’accertamento tecnico, e non trova applicazione in presenza di una pluralità di indagini non interdipendenti, che presuppongono necessariamente una pluralità di incarichi di natura differente, come nel caso di richiesta di rilievi topografici e planimetrici da un lato, e di attività di stima dei beni dall’altro che, in quanto previsti distintamente dagli artt. 12 e 13, comportano una liquidazione autonoma del compenso”.
Successivamente la Corte è tornata a pronunciarsi sulla questione degli onorari conferiti al CTU nel caso in cui il consulente non riesca ad ottenere il pagamento della parcella dalla parte ritenuta in giudizio soccombente. La questione, all’epoca, è stata posta sotto due profili:
a) quello di accertare se il CTU possa far valere il suo diritto al pagamento esclusivamente sulla base del decreto di liquidazione di cui alla L. n. 319 del 1080, art. 11, restandogli preclusa ogni altra azione, ed in particolare ogni azione ordinaria di cognizione fondata su provvedimenti diversi, quali le sentenze emesse nel giudizio nel quale il CTU ebbe a prestare la sua opera;
b) quello di accertare se ed entro quali limiti il CTU possa far valere la responsabilità solidale delle parti nei suoi confronti, quindi, potesse agire per il pagamento anche nei confronti della parte vittoriosa, nonostante ogni diversa disposizione del giudice in ordine alla ripartizione fra le parti delle spese processuali.
Se il principio fondamentale è quello per cui le parti sono solidalmente responsabili del pagamento delle competenze del CTU, anche dopo che la controversia in relazione alla quale il consulente ha prestato la sua opera sia stata decisa con sentenza passata in giudicato, indipendentemente dalla ripartizione in sentenza dell’onere delle spese processuali, non v’è alcuna ragione di escludere una tale responsabilità solidale a fronte di un sentenza non passata in giudicato, ma che tuttavia contenga un comando diverso da quello di cui al decreto di liquidazione delle spese.
Il decreto di liquidazione, di cui alla L. n. 319 del 1980, art. 11, ha e conserva efficacia esecutiva nei confronti della parte ivi indicata come obbligata e – finchè la controversia non sia risolta con sentenza passata in giudicato, che provveda definitivamente anche in ordine alle spese – ha l’effetto di obbligare il CTU a proporre preventivamente la sua domanda nei confronti della parte ivi indicata come provvisoriamente obbligata al pagamento e solo nel caso di sua inadempienza può agire nei confronti dell’altra, in forza della responsabilità solidale che, in linea di principio, grava su tutte le parti del processo per il pagamento delle spese di CTU e che perdura anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza conclusiva del processo, anche indipendentemente dalla definitiva ripartizione fra le parti dell’onere delle spese.
La responsabilità solidale non influisce, com’è noto, sulla titolarità del debito e sulla misura in cui ogni singolo debitore è tenuto ad adempiere, sulla base dei rapporti interni con i condebitori; solo esclude che l’onere dell’insolvenza di alcuno di essi venga a gravare sul creditore.
Dunque, la parte vittoriosa non potrà esimersi dalla corresponsione della parcella del CTU, in quanto la stessa potrà rivalersi sulla parte soccombente, secondo quanto stabilito dal Giudice.
Nel 2015 la Cassazione, confermando l’orientamento già espresso, ha precisato che le parti sono solidalmente responsabili del pagamento delle relative competenze anche dopo che la controversia, durante la quale il consulente ha espletato il suo incarico, sia stata decisa con sentenza, sia definitiva, sia non ancora passata in giudicato, a prescindere dalla ripartizione di dette spese nella stessa stabilita e, quindi, altresì, ove tale ripartizione sia difforme da quella in precedenza adottata con il decreto di liquidazione emesso dal giudice: unica eccezione a tale principio si rinviene nella emissione di un “provvedimento incidentale di revoca o modifica del suddetto decreto prima della emissione della sentenza a regolazione definitiva delle competenze dell’ausiliario”, atteso che, in tal caso, rimane intatto il diritto del consulente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 170, di proporre opposizione a tale modifica, facoltà che invece non sussiste una volta emessa la decisione definitiva, rispetto alla quale detto ausiliare perde qualunque legittimazione processuale ad interloquire sul quantum e sul quomodo di realizzazione del proprio credito.
Sulla provvisorietà del decreto di liquidazione, finchè la controversia non sia decisa con una sentenza che statuisca pure sulle spese di lite, l’ausiliario è tenuto a proporre prima la sua domanda nei confronti del soggetto ivi menzionato (nella misura indicata in decreto) e, solo ove questi resti inadempiente, può agire nei confronti degli altri soggetti processuali.
Una volta che la controversia sia stata risolta con sentenza che pronunci sulle spese, il perito dell’ufficio può fare valere le sue ragioni, invece, direttamente nei confronti di ogni parte in virtù della loro responsabilità solidale, indipendentemente dalla definitiva ripartizione dell’onere delle spese stabilita dal giudice.
Ciò in quanto essendo quello dell’ausiliare del giudice un “mandato neutrale”, il regime del pagamento delle spettanze del medesimo prescinde dalla ripartizione dell’onere delle spese tra le parti contenuto in sentenza, che avviene sulla base del principio della soccombenza e, concernendo unicamente il rapporto fra dette parti, e in quanto tale non è opponibile all’ausiliario.
In conclusione, se nel 2013 la Cassazione statuisce che la prestazione del CTU è effettuata in funzione di un interesse comune delle parti del giudizio, le quali sono solidalmente responsabili del pagamento delle relative competenze, anche dopo che la controversia, nella quale il consulente ha prestato la sua opera, sia stata decisa con sentenza passata in giudicato, al di là della ripartizione delle spese processuali che abbia deciso il giudice, nel 2015 la Suprema Corte stabilisce che il CTU, che abbia chiesto alla parte obbligata il versamento del proprio compenso, stabilito in base al decreto di liquidazione provvisoria del giudice, può esigerne il pagamento solidale da entrambi i soggetti, a prescindere dalla diversa ripartizione della spesa contenuta nella sentenza che ha definito il giudizio.
Se questo risulta oggi l’orientamento prevalente, la situazione in alcuni casi risulterà paradossale, in quanto il CTU che abbia inutilmente richiesto il proprio compenso alla parte dichiarata in sentenza soccombente, rimanendone insoddisfatto, dovrà rivolgersi alla parte vittoriosa, trovandone soddisfazione. Quest’ultima, nel caso in cui la parte soccombente dovesse risultare insolvente – caso non affatto raro – rischierà non solo di dover corrispondere quanto dovuto al CTU, ma anche di non vedere soddisfatte le ragioni stabilite in sentenza dal giudice. ©