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UN NUOVO REDDITOMETRO PER EVIDENZIARE L’EVASIONE “SPUDORATA”

di Mauro Vaglio e Simone Covino

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Agenzia delle Entrate, Comunicato stampa del 20 gennaio 2013

«I pensionati, titolari della sola pensione, non saranno mai selezionati dal nuovo redditometro che e’ uno strumento che verrà utilizzato per individuare i finti poveri e, quindi, l’evasione ‘spudorata’, ossia quella ritenuta maggiormente deplorevole dal comune sentire: già in fase di selezione, le posizioni con scostamenti inferiori a 12.000 euro non saranno prese in considerazione».

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Nei sistemi tributari moderni l’individuazione della capacità economica avviene principalmente grazie al meccanismo dell’autodeterminazione del tributo: il sistema, specialmente in Italia, si regge peraltro su una rete di segnalazioni, provenienti per lo più da grandi enti, pubblici o privati, che comunicano all’Amministrazione Finanziaria tutti i dettagli dei rapporti con lavoratori, consulenti e altri fornitori, ovvero che provvedono direttamente alla riscossione delle imposte. Il Fisco in Italia ha insomma via via esternalizzato una fetta notevole dei propri compiti, restando però sempre presente in funzione di assistenza del contribuente (attraverso gli atti di prassi, i comunicati stampa etc.) e soprattutto di deterrenza all’evasione (attraverso i controlli)(1). Naturalmente, la tassazione “al centesimo” attraverso la contabilità e le conseguenti dichiarazioni fiscali offre risultati migliori per i contribuenti più affidabili dal punto di vista contabile, che sono necessariamente quelli di maggiori dimensioni. I flussi reddituali, negli altri casi (imprese monoaddetto a dimensione “padronale”), vengono spesso determinati dal Fisco in via presuntiva (cd. “accertamento induttivo”); in alternativa, si può risalire ad un reddito ipotetico sulla base di certi consumi effettuati dal contribuente, anche in assenza di esercizio di un’attività economica, attraverso le varie tipologie di “accertamento sintetico”(2) tra cui spicca il noto “redditometro”.

Questa tipologia di accertamento non si basa quindi sulle fonti di produzione del reddito (impresa, lavoro, capitale, ecc.), ma utilizza un procedimento logico a ritroso, presumendo, salvo prova contraria, che le spese suddette siano state finanziate prima di tutto con il reddito del periodo d’imposta. L’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 determina i criteri per determinare in via presuntiva il reddito, attraverso alcuni elementi, circostanze e coefficienti (particolarmente il possesso di beni, la formazione del patrimonio, quale risultante del flusso di redditi) anche ulteriormente individuati da decreti ministeriali come il D.L. 78/2010. Visto che solo il contribuente conosce da dove ha ricavato le somme spese, è infatti logico che la legge gli faccia carico di dimostrare il finanziamento delle spese con somme diverse da redditi non dichiarati. L’amministrazione finanziaria (AF) si limita qui a dimostrare il sostenimento delle spese (il che è abbastanza facile quando si tratta di consumi o investimenti facilmente rilevabili, come il mantenimento di autovetture, di residenze secondarie, di imbarcazioni da diporto ecc.), per poi quantificare un reddito ipotetico attraverso il redditometro, superando de iure le incertezze di stima e le ritrosie degli uffici nell’assumersi la responsabilità di stabilire quanto costi mantenere, ad esempio, un’imbarcazione da diporto, un cavallo da corsa o una villa in montagna.

L’accertamento sintetico, e il redditometro che ne costituisce l’espressione più nota e temuta, rappresenta tra l’altro uno strumento di controllo molto spendibile dal legislatore nei confronti dell’opinione pubblica, specie se lo si invoca in fattispecie ove sono evidenti le sproporzioni tra consumi di lusso e redditi dichiarati. Da un lato, esso si dirige in modo indiscriminato verso tutte le categorie sociali, dai dipendenti ai professionisti, agli artigiani, ai piccoli commercianti o agli industriali: il tenore di vita consente di determinare la ricchezza senza guardare direttamente all’attività lavorativa, sparando invece nel mucchio di una moltitudine indifferenziata, e disorganizzata, di contribuenti che hanno la colpa di “spendere tanto”. Per altro verso, non di rado questo strumento viene presentato all’opinione pubblica come il “vendicatore degli onesti”, colpendo chi segue un tenore di vita incompatibile con la propria dichiarazione dei redditi. L’istituto esiste da una ventina d’anni, ma ogni tanto subisce un restyling ed un rilancio mediatico, con cui il legislatore mostra alla platea dei contribuenti, soprattutto ai meno diligenti, che “la festa è finita”. Data la contingenza economica, stavolta però anche i contribuenti “onesti” hanno la percezione di poter finire vittime di quello che appare un cieco meccanismo burocratico-statistico.

Si è resa pertanto necessaria qualche ulteriore messa a punto, con l’Agenzia delle Entrate, che ha diffuso dichiarazioni rassicuranti, promettendo in particolare che i pensionati, titolari della sola pensione, non saranno mai selezionati dal nuovo redditometro (che si rivolge invece ai finti poveri e quindi agli evasori “spudorati”) e che le posizioni con scostamenti inferiori a 12.000 euro non saranno prese in considerazione. Nel dettaglio, gli elementi su cui si basa il redditometro sono le informazioni:
che ordinariamente affluiscono nel Sistema Informativo dell’Anagrafe Tributaria;
acquisite tramite scambi di informazioni con le altre Agenzie fiscali, Enti ed Autorità Pubbliche (INPS, PRA, INAIL, SIAE, Comuni);
acquisite tramite specifiche e dedicate campagne di raccolta sul territorio anche in collaborazione con la Guardia di Finanza (che proseguiranno per ottenere elementi più specifici, non acquisibili in forma massiva)(3).
Vengono allo stato prese in considerazione oltre 100 voci, rappresentative di tutti gli aspetti della vita quotidiana, indicative di capacità di spesa, che contribuiscono congiuntamente alla stima del reddito. Le voci si possono aggregare in 7 categorie:

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  • abitazione;
  • mezzi di trasporto;
  • assicurazioni e contributi;
  • istruzione;
  • attività sportive e ricreative e cura della persona;
  • altre spese significative;
  • investimenti immobiliari e mobiliari netti.

La disponibilità di detti beni, il cui valore (sia di acquisto che di mantenimento) non sia compatibile con i redditi oggetto di dichiarazione annuale, comporta l’attivazione della presunzione relativa per cui competerà al contribuente «dimostrare in concreto che il proprio reddito effettivo è diverso ed inferiore a quello scaturente dalle presunzioni adottate dall’ufficio impositore»(4), tenendo presente che «l’effettiva capacità contributiva va individuata non in base alla mera proprietà o provenienza degli stessi (beni), ma valutando il necessario sostenimento di spese congrue per il loro mantenimento»(5). Tecnicamente, insomma, è il contribuente a dover contrastare le risultanze presuntive non solo dimostrando che i beni provengono dall’impiego di redditi già sottoposti a tassazione (ovvero esenti) ma che il mantenimento dei medesimi è compatibile col reddito dichiarato(6). Si noti poi che la «disponibilità dei beni indicati come indici e coefficienti presuntivi di capacità contributiva contempla anche le ipotesi di utilizzo a qualsiasi titolo, anche di fatto, da parte di terze persone in quanto obiettivo della disciplina è l’individuazione di fonti di reddito non dichiarate»(7).

Col D.L. già citato, l’istituto è stato fortemente riformato attraverso l’analisi a campione di oltre 22 milioni di famiglie ovvero circa 50 milioni di soggetti. Il processo è partito con l’individuazione di gruppi omogenei di famiglie, all’interno dei quali sono state selezionate quelle in condizione di normalità: ciò si ottiene mediante appositi indicatori che rivelano eventuali, significative incoerenze tra le voci indicative di capacità di spesa ed il reddito dichiarato. L’ultima fase, evidentemente la più delicata, prevede la stima della relazione tra reddito e voci indicative della capacità di spesa, che avviene applicando una funzione di regressione multivariata, dove per ciascuno dei 55 gruppi omogenei le voci indicative della capacità di spesa contribuiscono in misura differenziata alla stima del reddito della famiglia. Con la Circ. 1/E del 15/2/2013 è stato poi chiarito che i beni e servizi non esclusivamente ed effettivamente relativi all’attività d’impresa o di lavoro autonomo, come ad esempio le auto ad uso promiscuo, rilevano per la parte non riferibile al reddito professionale o d’impresa ovvero per la quota parte di spesa non fiscalmente deducibile. Il redditometro così riformulato è applicabile sui periodi di imposta a partire dal 2009; il 20 novembre 2012 è avvenuta invece la pubblicazione di un software (battezzato “Redditest”), per consentire al contribuente di capire se il reddito che intende dichiarare al Fisco è in linea o no con il proprio tenore di vita e la capacità di spesa sostenuta nel corso dell’anno. I contribuenti potranno utilizzare il Redditest per orientarsi in vista della compilazione della dichiarazione dei redditi; i risultati della verifica preventiva, in ogni modo, non potranno essere in alcuna maniera acquisiti dall’AF.

Nel dettaglio, il Redditest sarà imperniato su 100 indicatori di spesa suddivisi in 7 categorie: abitazioni, mezzi di trasporto, assicurazioni e contributi previdenziali, istruzione, attività sportive e tempo libero, investimenti immobiliari e mobiliari e altre spese significative. Si spazia dalle spese per la casa all’istruzione dei figli, dagli investimenti agli abbonamenti allo stadio o al teatro, dai viaggi alle cene al ristorante. A partire da questo mosaico di uscite sarà ricostruito un reddito presunto che si potrà confrontare con il reddito da dichiarare. Di fronte a scostamenti consistenti (oltre il 20%) si accenderà, come detto, il semaforo rosso e si dovrà quindi valutare in un’ottica di compliance come comportarsi in sede di dichiarazione dei redditi; nella Circ. 1/E del 15/2/2013 si è infatti chiarito che il Redditest è «esclusivamente uno strumento di autodiagnosi e orientamento per il contribuente nel quale lo stesso inserisce tutti i dati relativi alle spese sostenute dalla sua famiglia al fine di orientarsi circa la coerenza del proprio reddito familiare rispetto alle spese sostenute».

In conclusione, il tenore di vita può essere in effetti uno strumento integrativo, e non sostitutivo, degli accertamenti basati sull’attività. Quand’anche si potessero determinare “al centesimo” le spese sostenute dal contribuente, è infatti praticamente impossibile, perfino per lui stesso, ricostruire la trama patrimoniale che le  ha rese possibili. È facile, in definitiva, rendersi conto della complessità di chiedere a ciascuno di ricordarsi dei vari modi che gli consentono di sopravvivere, per darne conto, documenti alla mano, a un potenziale controllo di un “grande fratello fiscale”. Il redditometro fornisce agli Uffici tributari un sistema efficiente per rideterminare i redditi dei contribuenti, dotato di un efficace ombrello normativo che libera i funzionari da qualsiasi profilo di discrezionalità (sindacabile dai superiori gerarchici o al limite dalla Corte dei Conti); ma d’altro canto, l’accertamento in base al tenore di vita se applicato sine grano salis rischia di portare a risultati fuorvianti quanto più la condizione economica delle famiglie dipende da fattori patrimoniali, redditi soggetti a imposta sostitutiva, risorse provenienti dai genitori di entrambi i coniugi, ed altre circostanze non emergenti dal reddito ordinario Irpef. Per cui ben vengano le franchigie e gli aggiustamenti operati dall’Agenzia, soprattutto con riguardo alla promessa di tenere conto delle particolarità del caso concreto ai fini di una valutazione il più possibile “sartoriale” della situazione del contribuente. ©

NOTE

  1. Su questi temi si veda R. Lupi, Diritto amministrativo dei tributi, Dike, 2013, oppure (dello stesso autore) Manuale giuridico di scienza delle finanze, Dike, 2012.
  2. Art. 38, comma 4. d.P.R. n. 600/73. La denominazione è tutto sommato in se stessa poco autoesplicativa rispetto al procedimento logico che ricerca il reddito in base alla spesa: il reddito non è distinto analiticamente in base alle varie fonti di produzione, e quindi è “sintetico”, perché la spesa è un dato di “sintesi”, purtroppo influenzato spesso da entrate prive di natura reddituale. Si veda S. Covino – R. Lupi, L’insufficienza dell’accertamento sintetico per un controllo di massa: una conferma tra le tante, su Dialoghi Tributari, 2/2010, p. 35.
  3. Si tratta insomma di dati già pubblici, integrati da informazioni assunte attraverso strumenti di intelligence.
  4. Cass., sent. n. 14161 del 24 settembre 2003.
  5. Cass., sent. n. 23621 dell’11 novembre 2011.
  6. Cfr. Cass., sent. n. 9549 del 29 aprile 2011 e n. 13289 del 17 giugno 2011.
  7. Cass., sent. n. 12448 dell’8 giugno 2011.◊

 

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