di Daniela Gentile
Il 2020 verrà ricordato come l’anno della pandemia da covid-19 e delle devastanti conseguenze in campo economico e sociale; per chi si occupa di violenza di genere e tutela delle donne maltrattate l’emergenza sanitaria che suggerisce la casa come il luogo più sicuro si lega a doppio filo con un’altra che vede invece la salvezza proprio nell’allontanamento da quella stessa casa che diventa luogo di sopraffazione, abusi e maltrattamenti.
Le straordinarie misure messe in atto per fronteggiare l’emergenza, inoltre, hanno certamente avuto ripercussioni negative sui centri antiviolenza e le case rifugio contraendo di fatto la loro operatività in un momento ancora più delicato e di sofferenza per le donne .
Ma cos’è accaduto esattamente nel periodo del c.d. lockdown?
L’analisi dei dati può certamente fornire alcune, indicative risposte: nelle prime settimane della quarantena si è registrata una quasi totale assenza di contatti (nuovi ovvero di utenti già presi in carico) presso i centri antiviolenza; un arresto del fenomeno? Tutt’altro: le motivazioni sono da ricercarsi nella convivenza (forzata) con l’aguzzino – presumibilmente h24 posta la quasi totale chiusura di ogni attività lavorativa e dunque l’impossibilità, pratica, di ritagliarsi del tempo per chiedere aiuto – nonché nel fondato timore della donna per la propria salute e, spesso, per quella dei figli; ad un primo periodo di silenzio ha fatto da contrappeso un’impennata che si è registrata a cavallo della fine di marzo e l’inizio del mese di aprile dove i contatti alla rete del 1522 e ai centri antiviolenza sono notevolmente aumentati; a ciò tuttavia, non ha corrisposto un contestuale incremento delle denunce sporte che invece sono rimaste sostanzialmente ferme. Va aggiunto il problema del rallentamento, se non immobilità, del sistema giustizia che ha pressoché paralizzato le istanze a tutela delle donne. Secondo le stime sarà da attendersi un ulteriore aumento dei casi di violenza nei prossimi mesi legato alla crescita della disoccupazione con conseguente contrazione del regime economico della famiglia (notoriamente uno dei fattori maggiormente scatenanti tensioni nei maltrattanti).
Le problematiche maggiori si registrano comunque presso le strutture destinate all’accoglienza di donne vittime di violenza e minori; a titolo di esempio gli indirizzi operativi emanati dalla Regione Puglia prevedono la sospensione delle visite e i rientri in famiglia dei minori inseriti nelle comunità educative e nelle strutture – di cui al regolamento regionale numero 4/2007 – che accolgono minori comprese le strutture di accoglienza per madri con figli (questo naturalmente in linea di massima e fatte salve specifiche autorizzazioni da parte del Tribunale per i Minorenni); sospese, ancora, tutte le attività dei centri per le famiglie fino al termine dell’emergenza (prevedendo al contempo un incremento delle prestazioni erogabili mezzo chiamate telefoniche o attraverso dispositivi on-line); i centri antiviolenza hanno garantito il servizio potenziando, tuttavia, le prestazioni erogate con risposta telefonica e assicurando sempre reperibilità telefonica h24 al fine di riscontrare il primo contatto con la richiedente; disposizioni particolari sono previste per le case di rifugio di prima e di seconda accoglienza: in linea di massima sono sospesi i nuovi inserimenti nelle case rifugio che ospitano già donne e che non consentano spazi per l’auto isolamento delle nuove ospiti (dunque ogni nuovo ingresso è necessariamente preceduto da un periodo di auto isolamento della donna, anche accompagnata dai propri figli minori, presso un’altra struttura messa a disposizione dalla medesima casa rifugio spesso in convenzione con bed and breakfast attualmente chiusi).
Sarebbe stato piò opportuno, probabilmente, sollecitare una pronta valutazione della magistratura su ogni caso finalizzata all’adozione di una misura cautelare (es. il divieto di avvicinamento) ovvero all’emanazione di un ordine di protezione che avrebbe consentito non già l’allontanamento della donna con i figli ma bensì dell’aggressore.
Ancora, si registra la difficoltà (cronica) di reperire misure di sostegno economico: oggi, in piena emergenza, ci si trova, di fatto, nella medesima situazione in cui ci si trovava all’inizio del lockdown; nonostante fossero state richieste risorse straordinarie necessarie per gestire l’accoglienza i centri antiviolenza e le case rifugio hanno dovuto, nella maggior parte dei casi, provvedere in autonomia a reperire alloggi di fortuna e di emergenza.
Secondo le valutazioni delle Nazioni Unite la pandemia avrà un doppio effetto sulle donne: la chiusura delle scuole e dei centri diurni per gli anziani o per persone non autosufficienti aumenteranno gli oneri di lavoro domestico e di cura che continua per la maggior parte a ricadere principalmente sulle donne; inoltre queste rappresentano il 70% del personale del settore sanitario e sociale a livello mondiale e dunque saranno certamente esposte a maggior rischio di licenziamento; permane ancora, infine un divario retributivo medio di genere del 28% che può aggravarsi in tempi di crisi.
Gli effetti di tale situazione sono stati registrati in tutti i paesi coinvolti dalla pandemia: in Cina, secondo un’organizzazione non governativa, dal 6 marzo il numero totale di casi di violenza domestica nella prefettura di Jingzhou, nella provincia di Hubei, è salito ad oltre 300; anche il Regno Unito vive la medesima situazione: UN Women, l’Organizzazione delle Nazioni Unite dedicata alla parità di genere e all’emancipazione delle donne, ha posto l’accento sui legami tra incertezza economica, instabilità sociale e abuso domestico; in Spagna, infine, il Ministero della Giustizia ha incluso i tribunali che si occupano di violenza di genere tra quelli che continueranno a essere operativi per garantire l’emanazione di ordini di protezione e di eventuali misure precauzionali in materia di violenza contro donne e minori.
L’emergenza sanitaria, in relazione al fenomeno della violenza di genere, ha spinto naturalmente a guardare con maggiore attenzione al problema della violenza economica e del reinserimento sociale.
La convenzione di Istanbul riconosce tra le diverse forme di violenza quella economica: le vittime sono trasversali, per ceto e per età, donne costrette ad indebitarsi e a divenire completamente dipendenti dal compagno/marito; il dominio sulla vittima si esercita attraverso controlli nell’armadio o nei cassetti o peggio, nell’utilizzo improprio della carta d’identità delle vittime a loro insaputa. Le statistiche in questo caso sono difficili perché la maggior parte delle donne non è consapevole di essere vittima di violenza economica; ad ogni modo i dati Istat pubblicati all’inizio di agosto 2019 riportano 7 milioni di donne dai 16 ai 70 anni vittime, almeno una volta, di una forma di violenza non specifica. La giornata internazionale del 25 novembre 2019 contro la violenza sulle donne è stata dedicata proprio alle forme di violenza economica, più subdole ma quasi sempre presenti e prodromiche alla violenza fisica; occorre riconoscere la centralità è l’importanza di contrastare questo aspetto, lavorando proprio sull’autonomia delle donne.
A partire dall’emanazione della Legge 119/2013 si è vissuta, a livello istituzionale, una progressiva presa di coscienza del fenomeno della violenza maschile nei confronti delle donne che ha condotto al raggiungimento di importanti obiettivi sotto il profilo culturale, preventivo e repressivo. Molti ancora i passi da fare, specie sull’asse del sostentamento economico per le donne una volta fuoriuscite dal circuito della violenza, troppo spesso sottovalutato.
Ben prima che nei testi normativi il fenomeno era stato portato allo scoperto dai movimenti degli anni ’70 del secolo scorso che condussero alla nascita dei centri antiviolenza, la cui attività è parsa di fondamentale importanza sin dalle riunioni dal convegno internazionale femminista che si tenne a Roma al Governo Vecchio nelle giornate del 25 e 26 marzo 1978.
Il quadro normativo oggi esistente, come detto, contiene notevoli elementi di pregio; la disciplina, tuttavia, avrebbe meritato un approccio maggiormente organico e la formulazione di un corpus normativo ad hoc; non sempre è facile orientarsi nell’arcipelago normativo esistente come è stato sottolineato anche dalle Sezioni Unite.
A ciò va aggiunto, come rilevato dal comitato Cedav nel suo monitoraggio periodico dell’Italia, che ancora molti sono gli stereotipi e i pregiudizi sessisti vigenti che depotenziano, di fatto, le norme presenti; a solo titolo di esempio, le denunce presentate dalle donne per maltrattamenti se proposte in costanza di separazione (ancor di più se in presenza di figli) vengono spesso considerate pretestuose (mancando di considerare che invece i maltrattamenti e le persecuzioni spesso si acuiscono con la palesata volontà della donna di porre fine al matrimonio); allo stesso modo strumentali vengono considerate le querele sporte dalle donne immigrate e prive di permesso di soggiorno (il cui unico obiettivo sarebbe quello di ottenere il titolo di soggiorno ai sensi dell’articolo 18 decreto legislativo 286 del 98). Ancora, frustrante, per la donna e per chi la rappresenta constatare la perenne confusione che ancora regna sovrana nelle aule di giustizia civile ove, nei procedimenti di separazione, si continua ad usare, come fossero un’endiadi, i termini “conflitto famigliare” e “violenza domestica” anche, addirittura in presenza di un procedimento penale in atto; si propongono forme di mediazione per la coppia in corso di separazione sulla base di una presunta tutela della serenità dei figli ignorando quanto previsto dalla convenzione di Istanbul che vieta qualsiasi forma di mediazione tra autore e vittima della violenza: l’appello è al diritto di genitorialità di cui alla legge 54 del 2006 che prevede di fatto l’obbligo dell’affido condiviso, una legge che considera la bigenitorialità come il supremo interesse del minore da preservare a tutti i costi anche a rischio della salute e della incolumità psicofisica dei bambini, nonché molto spesso contro la stessa volontà dei piccoli.
A proposito dei minori ignorato, di fatto, l’art. 31 della convenzione sopra citata che impone di prendere in dovuta considerazione la violenza assistita al momento di determinare il diritto di visita dei figli: l’uomo violento non è mai invitato a prendere consapevolezza della gravità del proprio comportamento (anzi le donne spesso si ritrovano ad essere etichettate come troppo protettive o addirittura alienanti quando rappresentano le paure dei figli e di incontrare il padre) .
Mentre la commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio ha presentato la proposta di emendamento all’articolo 83 del decreto legge cura Italia finalizzata a proteggere le vittime di violenza domestica dall’eventualità di dover incontrare i padri violenti dai quali sono separate, occorre anche promuovere e potenziare il lavoro che andrebbe fatto con i minori volto alla ricostruzione di un di un sereno rapporto con la figura materna e in particolare a sperimentare condotte alternative al comportamento violento che hanno spesso subito; i minori vittime di violenza assistita hanno bisogno di imparare ad interagire con modelli femminili e maschili non stereotipati, di ricostruire un’immagine materna autorevole e di esprimere le emozioni nascoste eliminando il senso di vergogna e di colpa, sviluppando la propria autostima e fiducia in se stessi e nel mondo.
Fondamentale continuare a promuovere, in conclusione, il mutamento culturale e combattere gli impedimenti strutturali percepiti con naturalezza dalla società che ancora difende, o comunque tollera, la cultura patriarcale che costringe le donne ad uno stato di, sostanziale, sudditanza. ©