di Claudio Cazzolla
[vc_row]Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, sentenza n. 9047 del 31 gennaio 2018 e depositata il 27 febbraio 2018
Il secondo comma dell’art. 54-bis del Dlgs 30.03.2001 n. 165 è esplicito nel significare che l’anonimato del denunciante opera unicamente in ambito disciplinare, essendo peraltro subordinato al fatto che la contestazione “sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione”, giacché, ove detta contestazione si basi, in tutto o in parte, sulla segnalazione stessa, “l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato”: ne consegue che, in caso di utilizzo della segnalazione in ambito penale, non vi è alcuno spazio per l’anonimato.
La lettura della norma dettata dall’art. 54-bis del Dlgs 30.03.2001 n. 165 – nella formulazione vigente all’epoca dei fatti – offre puntuale conferma dell’esattezza dell’impostazione seguita dai giudici napoletani, atteso che il secondo comma dell’articolo in questione dispone chiaramente che l’identità del denunciante può restare segreta solo nel procedimento disciplinare e sempre se la contestazione “sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione” di per sé sufficienti a reggere l’incolpazione. Nel caso invece in cui la contestazione si fondi esclusivamente o in parte sulla segnalazione stessa, l’identità del denunciante va rivelata perché necessaria ai fini della difesa dell’incolpato. Nel processo penale, invece, non vi è alcuno spazio per l’anonimato per le ragioni di seguito illustrate.
L’art. 111 della Costituzione della Repubblica Italiana, al terzo comma stabilisce che: «Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato … abbia la facoltà davanti al giudice, di interrogare o di fare interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico…» e, il successivo quarto comma, che: «La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore».
Si tratta di una delle regole basilari del giusto processo, attraverso cui si manifesta il principio di difesa e del contraddittorio nella formazione della prova (art. 24 Cost.).
Sebbene il costituente faccia espressamente riferimento solo al processo penale, è chiaro che il principio è implicitamente confermato anche a livello civilistico, laddove il codice di procedura civile prevede la facoltà di deferire, ai sensi dell’art. 230 c.p.c., l’interrogatorio formale nei confronti della controparte (attore o convenuto che sia), al fine di ottenerne la confessione, nonché la facoltà di essere ammessi alla prova contraria a mezzo gli stessi testimoni invocati dalla controparte per sondare la loro attendibilità (cfr. art. 253, co. 2, c.p.c.).
Nel processo amministrativo, di natura eminentemente documentale, le facoltà sopra viste si condensano nella più generale regola della prova contraria documentale, in virtù dell’immanenza nel nostro intero ordinamento giuridico del principio del contraddittorio nella formazione della prova (l’art. 2, del codice del processo amministrativo richiama l’art 111 Cost.; v. inoltre artt. 63 ss. C.p.a.).
Non è dunque pensabile – per una fondamentale regola di giustizia sostanziale – che una persona possa essere accusata in un processo penale o incolpata in un procedimento disciplinare sulla base di dichiarazioni anonime. Del resto è lo stesso art. 333, co. 3, c.p.p., che vieta l’utilizzabilità delle denunce anonime, salvo quanto disposto dall’art. 240 c.p.p., che eccezionalmente ammette i documenti anonimi nei soli casi in cui costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato. La giurisprudenza ammette tuttavia l’utilizzo delle denunce ed esposti anonimi al solo fine di impulsare indagini da parte degli organi requirenti, giammai per fondare un’accusa o misure coercitive (Cass. Pen. 34450/2016).
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