IL BADGE DEVE ESSERE UTILIZZATO DAL DATORE DI LAVORO PER VERIFICARE LE PRESENZE E NON PER CONTROLLARE IL DIPENDENTE

di Elena Bassoli

[vc_row] Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 17531 del 22 marzo 2017 e depositata il 14 luglio 2017

La Corte ha rigettato il ricorso della Società che denunciava la violazione o la falsa applicazione dell’art. 4 L. n. 300/1970, lamentando che la sentenza impugnata ha ritenuto che il meccanismo del badge (a radio frequenza), che si limita a leggere le informazioni contenute nella tessera dei dipendenti, costituisse un illegittimo strumento di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

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1.     Premessa
Con la sentenza del 14 luglio 2017 la Suprema Corte affronta il problema dell’utilizzo, da parte del datore di lavoro, dei badge aziendali muniti di dispositivo RFID (Radio Frequency Identification) qualificabile, in assenza di accordo sindacale con le RSU o di provvedimento autorizzatorio della Direzione territoriale del Lavoro, come illecito controllo a distanza del lavoratore ai sensi dell’art. 4 L. 300/70. Secondo la lettera dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, infatti, l’installazione e l’utilizzazione delle apparecchiature e degli strumenti di controllo a distanza non sono ammesse a fini di vigilanza sull’attività lavorativa, ma soltanto se sussistono esigenze ragionevoli e meritevoli di tutela espressamente indicate dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, che non potrebbero essere salvaguardate adeguatamente con l’attivazione di altre forme di sorveglianza, meno invasive, quali il controllo svolto da altre persone: controllo che, a sua volta, può concernere la prestazione lavorativa, ma che deve essere effettuato con modalità anch’esse rispettose della dignità dei lavoratori.

Nell’occasione la difesa della società datrice di lavoro punta la propria strategia difensiva sull’assunto in base al quale l’apparecchiatura installata e i relativi device non abbiano nulla a che vedere con il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, essendo piuttosto diretti a verificare la circostanza fondamentale della loro presenza o assenza dal luogo di lavoro, effettuata per mezzo del controllo dei semplici orari di ingresso e di uscita dei lavoratori.
Di diverso avviso è la Cassazione, la quale, avallando l’iter decisionale della Corte d’Appello di Napoli conferma che, sulla base di ulteriori elementi di fatto liberamente valutabili dal giudice di merito ed incensurabili in sede di legittimità, deve considerarsi corretto l’accoglimento della domanda del lavoratore.

2.     La rilevazione delle presenze
Gli accertamenti di fatto svolti dalla Corte partenopea hanno evidenziato come anche la rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall’azienda mediante un’apparecchiatura di controllo predisposta dal datore di lavoro, sia pure per il vantaggio dei dipendenti, ma utilizzabile anche in funzione di controllo dell’osservanza dei doveri di diligenza nel rispetto dell’orario di lavoro e della correttezza dell’esecuzione della prestazione lavorativa, non concordata con le rappresentanze sindacali, né autorizzata dall’ispettorato del lavoro, si risolve in un controllo sull’orario di lavoro e in un accertamento sul quantum della prestazione, rientrante nella fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. Benché in passato si sia esclusa l’applicabilità dell’art. 4 a strumenti tradizionali come tornelli e badges che consentono la registrazione delle ore di entrata e di uscita del personale, con l’avvento delle nuove tecnologie anche la giurisprudenza si è orientata verso una visione più restrittiva, basando il proprio iter logico-argomentativo sul fatto che la registrazione dell’identità del lavoratore all’entrata e all’uscita dall’azienda e/o dal parcheggio aziendale possa condurre ad un controllo dell’attività lavorativa del singolo dipendente.

Del resto, su tale linea si è posto anche il Garante per la protezione dei dati personali, nella misura in cui per i badges di tipo tradizionale, ha precisato che, viene in rilievo la registrazione di dati personali «che possono essere oggetto di una richiesta di accesso» e per i quali il datore deve informare il soggetto a cui i dati si riferiscono circa le finalità e le modalità del trattamento stesso, nonché l’ambito di comunicazione e diffusione degli stessi e quindi tutte le altre informazioni obbligatorie previste dall’art. 13 del Codice della privacy e ribaditi dall’attuale Reg. 2016/679/UE.

Di conseguenza sono stati esclusi dall’ambito dell’art. 4 soltanto strumenti che non presentano nemmeno la potenzialità di un qualunque controllo sullo svolgimento dell’attività dei dipendenti, essendo gestiti dal lavoratore stesso, come per le apparecchiature di controllo della produzione che segnalano il fermo macchina. Ed è proprio il controllo a distanza dei lavoratori che si esplica di fatto nella verifica costante del rispetto dell’obbligo di diligenza in relazione all’orario di lavoro a rientrare a pieno titolo nella fattispecie prevista dal secondo comma dell’art. 4 L. n. 300/1970.
In tal caso infatti si tratta di strumento di controllo a distanza e non di mero rilevatore di presenza, tenuto anche conto del fatto che il sistema in oggetto consente di comparare immediatamente i dati di tutti i dipendenti, realizzando così un controllo continuo, permanente e globale.

3.     Gli accertamenti delle condotte illecite sul luogo di lavoro
Neppure l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti può assumere rilevanza tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore, quando, però, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro.
Per vero già la relazione ministeriale di accompagnamento alla l. n. 300/1970 precisava che la vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, va «mantenuta in una dimensione «umana», cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro».

Ad altra direzione occorre volgere lo sguardo allorquando invece i controlli siano imposti sì dall’esigenza di evitare condotte illecite, ma riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso.
In tal caso deve infatti ritenersi che esuli dal campo di applicazione della norma la fattispecie in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale.
In tali casi si è escluso che rientrino nel divieto dell’art. 4 gli accertamenti operati dal datore di lavoro, anche attraverso riproduzioni filmate, diretti a tutelare il proprio patrimonio aziendale al di fuori dell’orario ed all’esterno dei luoghi di lavoro, contro possibili atti penalmente illegittimi compiuti da terzi, compresi i propri dipendenti .

4.     Le apparecchiature di controllo
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 4 St. lav. occorre analizzare cosa la lettera della legge intenda per “apparecchiature di controllo”.
In particolare, a tale sintagma, dottrina e giurisprudenza hanno spesso ricondotto strumenti che permettono un controllo sui risultati della prestazione talmente continuo e minuzioso da consentire una ricostruzione, seppure indiretta, delle modalità di svolgimento della prestazione.

 

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