Il nuovo abuso d’ufficio: un reato alla continua ricerca di sé (I parte)

di Simona Usai

Legge 11 settembre 2020, n. 120
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali» (Decreto Semplificazioni)


Il legislatore nel c.d. “Decreto Semplificazioni” n. 76/2020, convertito nella legge 120/2020, è intervenuto – di nuovo – sul reato di abuso d’ufficio. Per la quarta volta dall’entrata in vigore del codice Rocco si è passati dall’abuso “innominato” del codice del 1930 alla riforma dovuta alla l. 26.4.1990, n. 86, dalla l. 16.7.1997, n. 234 alla l. 6.11.2012, n. 190 (c.d. legge Severino).

L’attuale riforma è stata voluta dal Governo con l’intento di limitare le responsabilità penali degli amministratori pubblici e facilitare la ripresa delle opere pubbliche e il rilancio dell’economia. La norma, infatti, che vorrebbe contrastare la c.d. burocrazia difensiva, va oggi coordinata con la nuova previsione in tema di responsabilità erariale. La “paura della firma” ha indotto molti pubblici funzionari a non sottoscrivere una serie di atti, a volte concatenati tra loro, per non essere coinvolti in processi penali e questo ha generato una sorte di “immobilismo” in alcuni settori della P.A.
Ecco allora che il legislatore ha pensato di modificare l’art. 323 c.p., al fine di sbloccare tante, forse troppe situazioni, ormai frustrate.

Sotto il profilo strutturale, il reato continua ad essere commesso solo da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, dunque, continua a rimanere un reato proprio; che consiste ancora nel cagionare intenzionalmente a sé a ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o nell’arrecare ad altri un danno ingiusto, e quindi, resta un reato di evento; commesso con dolo intenzionale.
A ben guardare, quindi, la nuova fattispecie non è mutata se non nella condotta (positiva) sintetizzata in un inciso, che, nel tempo, potrebbe fare la differenza: prima (nella versione del 1997) il pubblico funzionario poteva commettere il reato in caso di “violazione di norme di legge o di regolamento”, oggi potrebbe incorrere nel reato de quo in caso di “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e delle quali non residuino margini di discrezionalità”.

E quali sarebbero queste specifiche regole di condotta previste solo da norme di rango primario e che non contemplino margini di discrezionalità in sede applicativa?
In passato, nella “violazione di norme di legge” ex art. 323 c.p. rientravano norme dal contenuto di principio o norme generiche, nonché clausole generali, e si precisava che “in tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di norme di legge poteva essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprimeva il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che imponeva al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione”, oppure veniva configurato con il rilascio, da parte del Dirigente, di un permesso di costruire, consapevolmente, in violazione delle norme che disciplinavano le costruzioni edilizie, o, ancora, nella condotta di un amministratore ASL che, per l’affidamento di un appalto, contattava una sola azienda, e non almeno tre come da legislazione di settore.
Oggi, si vuole cercare di ridurre l’area applicativa della nuova fattispecie, ma non siamo certi che la strada intrapresa dal legislatore sia quella più corretta per le considerazioni che seguono.
Innanzitutto, non si può fare a meno di considerare che le “leggi e gli atti aventi forza di legge” richiamate nella nuova condotta presentino – di per sé – requisiti di generalità ed astrattezza, infatti, la giurisprudenza, nel vigore della precedente norma, attribuiva al principio di imparzialità ex art. 97 Cost. una valenza prescrittiva dalla quale ricavare vere e proprie regole di comportamento, e come tali capaci di integrare il concetto di violazione di norme di legge di cui all’art. 323 c.p..

Allo stesso modo, oggi, non sembra potersi slegare, alle violazioni di regole di condotta comunque riconducibili a norme di legge, il principio di imparzialità alla base dei reati contro la P.A. La norma costituzionale, nella sua parte immediatamente precettiva, vieta ad ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare vantaggi ingiusti ovvero per realizzare discriminazioni e quindi procurare ingiusti danni. Sul punto la giurisprudenza è intervenuta più volte precisando che, per esempio, «integra il reato di abuso di ufficio il demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo, atteso che tale condotta determina l’inosservanza dei doveri costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost., nonchè la violazione del dovere di adempiere con disciplina ed onore all’esercizio di funzioni di pubbliche previsto dall’art. 54 Cost.». Dunque, oggi sarebbe un errore svuotare di portata precettiva l’art. 97 Cost. che risulta essere di fatto un sostanziale ausilio per l’identificazione di condotte penalmente rilevanti, anche se – secondo alcuni – non trova giusta collocazione tra le condotte penalmente rilevanti della nuova fattispecie.

Se però è rimasto nella nuova formulazione il richiamo alla legge (o atti ad essa equiparati), non può dirsi altrettanto del regolamento, che non vi trova espresso riferimento. Pensare, però, che basti questo per ritenere espunta dalla nuova norma tale fonte secondaria (e a volte risolutiva) sarebbe un errore. Molto spesso è proprio nei regolamenti che si rintracciano condotte espresse e specifiche a cui nella pubblica amministrazione occorre conformarsi. A volte proprio i regolamenti risultano decisivi nelle legislazioni di settore, ove necessitano competenze tecniche e aggiornamenti continui. Senza considerare che, in passato, la giurisprudenza di per sé escludeva dalle condotte penalmente rilevanti quegli atti che avevano natura meramente interpretativa o attuativa di normative preesistenti, ma esigeva la violazione di fonti sub-primarie adottate attraverso un iter regolamentare configurato da un provvedimento di legge ed in tal senso formalizzato con la qualifica espressa di regolamento.

E allora, come ha ipotizzato una parte della dottrina e già attuato la giurisprudenza (in merito al piano regolatore), è possibile che la violazione di una regola di condotta sia prevista da una fonte secondaria e riconducibile in via mediata anche ad una fonte primaria. Secondo la Cassazione, infatti, “il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi dell’art. 12 comma 1, d.p.r. n.380 del 2001 – alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigenti, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p..[…] I piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, (…) ma in quelli degli atti amministrativi generali la cui violazione rappresenta il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (artt. 12 e 13 d.p.r. 380/2001)”.©

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