di Simona Usai
Legge 11 settembre 2020, n. 120
Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, recante «Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitali» (Decreto Semplificazioni)
Nella spinta innovatrice il legislatore ha cercato di precisare quanto più possibile la condotta del nuovo abuso, circoscrivendola a specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge, le quali non devono residuare di discrezionalità.
Ebbene, è proprio questo il cuore del problema!
Il vero intento del legislatore è quello di “sottrarre al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario, (…) quanto il sindacato del mero “cattivo uso – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa”.
Questo perché la legge riconosce all’autorità amministrativa il potere di provvedere in vista di un determinato fine. Mentre, in virtù del principio di legalità, i fini da perseguire vengono sempre individuati dal potere politico con l’attività legislativa, la scelta delle modalità o dei tempi con i quali provvedere possono essere affidati alla pubblica amministrazione in misura più o meno significativa. Da qui la distinzione tra attività vincolata, nella quale alcun margine di apprezzamento viene riconosciuto, e attività discrezionale, nella quale la pubblica amministrazione sceglie tra varie soluzioni possibili quella che risulta più conforme alle esigenze di cura dell’interesse affidatole. Tuttavia, per quanto ampio possa essere il potere di scelta, non potrà mai parlarsi di autonomia quale capacità di libera determinazione dei propri fini, trattandosi di un potere funzionalizzato, ovvero vincolato nel perseguimento dell’interesse pubblico.
Eppure, nonostante questo potesse sembrare chiaro sulla carta, il dibattito sulla natura discrezionale degli atti, quali presupposto del reato di abuso d’ufficio, non si è mai sopito.
Il pubblico ufficiale agisce nello svolgimento delle funzioni o del servizio, instaurando così uno stretto legame con l’attività procedimentale, quale presupposto per il compimento del reato. Di conseguenza, in passato, è stato necessario verificare quali atti potessero integrare il presupposto funzionale richiesto del delitto di abuso d’ufficio. E la dottrina è stata unanime nell’ammettere che possano venire in rilievo i provvedimenti ed ogni tipo di atto, i comportamenti, le operazioni, le condotte omissive e gli atti di diritto privato, purché riferibili all’attività funzionale del pubblico ufficiale.
Dunque, l’attività procedimentale dell’amministratore pubblico è il presupposto per il compimento del reato. In questo modo l’abuso deve afferire causalmente all’attività propria svolta dal soggetto agente e al suo concreto esercizio.
A ciò si aggiunga che le diverse interpretazioni fornite dalla dottrina e dalla giurisprudenza circa la rilevanza penale della violazione anche delle norme procedimentali e dell’art. 97 Cost., hanno prodotto forti dubbi sulla possibilità di ricomprendere in tale espressione anche il vizio di eccesso di potere. Dubbi che nel tempo in giurisprudenza si sono via via dissipati.
Infatti, l’eccesso di potere ha costituito la figura attraverso la quale i giudici hanno nel tempo definito i tratti propri della discrezionalità amministrativa, quale posizione tipica dell’agire pubblico nell’esercizio del potere. Esso presuppone, infatti, che si sia agito in conformità alla legge e, nonostante ciò, siano risultati violati i limiti finalistici e di ragionevolezza intrinseci all’agire pubblico: l’atto conseguirebbe uno scopo diverso da quello voluto dalla norma, e verrebbero violati i limiti dell’attività amministrativa. Attraverso il vizio dell’eccesso di potere possono emergere tutte le violazioni dei limiti interni della discrezionalità amministrativa che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato.
Questo perché il problema risulta spesso di ordine pratico, cioè non è sempre facile capire quando un amministratore pubblico che esercita un potere che la legge gli attribuisce, attraverso schemi tipici, realizzi ingiusti vantaggi o danni. E’ il caso, per esempio, del dirigente che per favorire ovvero discriminare un suo subordinato adotta soluzioni organizzative in apparenza conformi a legge, ma in realtà dettate dall’intento di “premiare” qualcuno o “punire” qualcun altro. Sotto il profilo di stretta legalità formale, probabilmente l’atto sarebbe immune da censura; ma se al giudice penale, si riconosce invece, il potere di sindacare il motivo vero che ha indotto quel dirigente a conferire posizioni di vantaggio al proprio favorito ovvero emarginare il dipendente scomodo, il risultato processuale potrebbe essere del tutto opposto, pervenendosi ad un giudizio di affermazione di responsabilità per violazione del principio di imparzialità .
Dunque, se il giudice penale non dovesse più sindacare sulla discrezionalità dell’amministratore pubblico, come invece ritenuto da recente giurisprudenza, si restringerebbe in maniera pericolosa l’area del penalmente rilevante.
Quindi, interpretare l’inciso delle «regole di condotta (…) dalle quali non residuino margini di discrezionalità» come assenza di discrezionalità in capo all’organo giudicante, potrebbe voler indicare l’assenza dell’eccesso di potere.Pertanto, si tratta di operare una scelta netta: o interpretare la nuova norma valorizzando gli strumenti del passato, cercando di circoscrivere sempre meglio la condotta, e ritenendo valido il lavoro già svolto dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina, oppure considerare il nuovo abuso d’ufficio come una scatola ormai vuota, con il rischio di non vedere contestati comportamenti di abuso anche macroscopici, non essendoci più i mezzi di tutela del passato.
Se è vero che secondo l’Istat i procedimenti che iniziano con l’accusa di abuso d’ufficio sono tanti, ma solo una piccola percentuale si conclude con una condanna, è altrettanto vero che questi dati dovrebbero essere sempre letti assieme ad altri fattori, che ruotano nel sistema processual-penalistico, a cominciare dalla prescrizione.
Dunque, qualificare il nuovo abuso d’ufficio come una ipotesi di abolitio criminis non è affatto pacifico, nonostante ciò sia stato configurato nelle prime pronunce della giurisprudenza, ove si è anche precisato che «in tema di abuso d’ufficio, la modifica introdotta con l’art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76 ha ristretto l’ambito applicativo dell’art. 323 c.p., determinando una parziale “abolitio criminis” in relazione alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità».
In realtà, ad una diversa analisi della condotta della nuova norma incriminatrice si potrebbe pervenire a soluzioni assolutamente differenti, che porterebbero a concludere che il nuovo precetto non fa altro che cercare di qualificare meglio condotte che, diversamente, non potrebbero trovare spazio nel nostro codice, pena la totale o parziale impunità delle stesse.
Va, altresì, ricordato che la giurisprudenza immediatamente successiva alla riforma del 1997, dinanzi all’inciso «violazione di legge o di regolamento» – esattamente come oggi nelle prime battute – interpretò in maniera “letterale” detta locuzione, ritenendo che fosse stata espunta dall’area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso del diritto che non si concretizzasse nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, tanto è che si riteneva che non fosse più consentito al giudice penale un sindacato sulla discrezionalità amministrativa, poiché il legislatore aveva ritenuto che, per esigenze di certezza del precetto penale, tale sindacato non fosse più concesso.
Successivamente, invece, i giudici cambiarono orientamento, ritenendo che l’espressione «violazione di legge o di regolamento» dovesse comprendere anche quelle condotte formalmente legittime, ma dirette in realtà a realizzare un interesse confliggente con quello per il quale era stato conferito il potere.
Dunque, dovremmo augurarci un mutamento di rotta rispetto alle prime sentenze, come si intravede, alla luce delle riflessioni fin qui svolte, nonché da quelle già esposte da insigni esponenti della dottrina, alla ricerca di una più attenta ed efficace interpretazione di una norma che, se ben applicata, potrebbe diventare un valore aggiunto, anziché una zavorra del nostro sistema penale, anche perché si tende a colpevolizzare i magistrati che indagano al fine di verificare la rispondenza alla norma, e non individuare il problema o uno dei problemi “a monte” del sistema, come autorevolmente sostenuto: «Il rilievo cruciale, per chi si occupa di diritto penale, è che il sistema dei controlli amministrativi interni si è da tempo affievolito ed è addirittura scomparso. Quella che dovrebbe essere l’ultima Thule del controllo di legalità – e cioè l’intervento del giudice penale – è così divenuto, in realtà, la sua prima (e talvolta unica) istanza».©