di Carlo Bosna
L’Iran è stato scosso da una serie di proteste senza precedenti dopo la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne Curda deceduta il 16 settembre 2022 mentre era sotto la custodia della polizia morale di Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab.
Le proteste, che hanno coinvolto persone di tutte le età e classi sociali, rappresentano una sfida significativa al regime iraniano e la sua rigida applicazione delle leggi islamiche. L’esito di questo movimento rimane incerto, ma ha già avuto un impatto importante sulla società iraniana e ha acceso un faro sulle violazioni dei diritti umani nel Paese.
Le autorità iraniane hanno risposto alle proteste con arresti di massa, uso di gas lacrimogeni, proiettili di gomma, e interruzione di Internet per limitare la diffusione di informazioni sulle manifestazioni.
Molti attivisti hanno cercato di aggirare la censura usando VPN e proxy, con l’aiuto e la solidarietà di persone e organizzazioni di diversi Paesi del mondo.
Le società tecnologiche occidentali, infatti, si sono, mosse per cercare di trovare delle soluzioni alternative per aggirare il blocco governativo. Tra queste, secondo quanto affermato da Mahsa Alimardani, ricercatrice nell’Università di Oxford e membro dell’Organizzazione per i Diritti Umani Article19, il cosiddetto “domain fronting”, una tecnica per aggirare la censura attraverso il mascheramento dell’app o del sito Web che un utente desidera raggiungere.
Tra i metodi utilizzati per aggirare la censura di Internet, l’uso delle connessioni di rete private tra dispositivi, utilizzate per trasmettere dati sulle reti pubbliche in modo anonimo e sicuro, le VPN (Virtual Private Network), è divenuto una pratica comune per poter accedere ai siti Web e alle piattaforme di comunicazione bloccate dal Governo. Di fatto, l’80% degli Iraniani utilizzano questa tecnologia per aggirare le restrizioni.
Il regime ha però risposto a queste azioni iniziando a chiudere tutte le VPN rilevate dalle autorità di polizia utilizzando la “Deep Packet Inspection”, una tecnica che analizza il traffico web e riconosce e blocca tutte le reti private, comportando una maggiore difficoltà di comunicazione per i cittadini durante le proteste.
La posta in gioco si è alzata ed è sceso in campo il colosso Google che ha proposto Outline, una VPN aziendale a pagamento che consente un accesso sicuro ad Internet, ma il Governo, in breve tempo, è riuscito a rintracciare la sorgente portandola alla chiusura.
Oltre alle società occidentali, anche numerosi gruppi di hacker hanno cercato di aggirare il blocco di Internet attraverso l’utilizzo di VPN, server proxy e dark web. Allo stesso modo ci sono stati tentativi da parte di migliaia di utenti di condividere dettagli sui server delle VPN aperte, distribuendo anche delle risorse sull’impiego di server proxy, che convogliano il traffico Internet attraverso una rete di computer in continuo aggiornamento e gestita da volontari, rendendo così difficile al regime limitarne l’accesso.
Le autorità iraniane hanno bloccato l’accesso a numerosi siti web e app di social media, tra cui WhatsApp, Instagram, Telegram, Twitter e YouTube.
Tra le App di messagistica non utilizzabili nel Paese dallo scoppio delle proteste vi è stato anche Signal, app di messaggistica crittografata che aveva l’opzione di abilitare l’uso del proprio servizio per i cittadini Iraniani. Il CEO dell’azienda, Meredith Whittaker, aveva richiesto ai propri utenti di rendere accessibili i propri server proxy con lo scopo di aiutare la popolazione a rimanere in contatto tra loro e avere informazioni dal mondo esterno. Questi server avevano come obiettivo quello di aggirare i blocchi degli indirizzi IP di Teheran. Ad ottobre del 2023 la società di messagistica ha annunciato di essere alla ricerca di soluzioni efficienti, automatizzate e convenienti per poter aggirare le censure imposte dal Paese, ma senza ancora averne trovata una. Purtroppo, però, al pari dei governi di Cina, Egitto, Cuba, Uzbekistan, l’Iran ha bandito completamente anche Signal.
Gruppi di hacker hanno anche contribuito a diffondere informazioni e a fornire supporto tecnico agli attivisti iraniani. La controinformazione governativa ha però ostacolato questi sforzi, incoraggiando l’uso di app di social media e messaggistica controllate dallo Stato, versioni domestiche di popolari social media e app di messaggistica, molte delle quali ricevono un sostegno dallo Stato, come Mehr, lo Youtube iraniano, tentando così un controllo sulle comunicazioni social e innalzando il livello di sorveglianza, data l’ampia raccolta di dati delle app e le scarse misure di sicurezza che prevedono.
Le proteste in Iran hanno avuto un impatto significativo sulla censura di Internet nel paese. Il regime ha intensificato i suoi sforzi per controllare il flusso di informazioni, ma le società tecnologiche occidentali e i gruppi di hacker continuano a cercare nuove soluzioni per aggirare i blocchi. La lotta per la libertà di informazione in Iran è ancora in corso, ma le proteste hanno dimostrato che il regime non può controllare completamente Internet.
A fine settembre 2022, è sceso in campo Elon Musk, CEO di SpaceX, che ha annunciato l’attivazione di Starlink, la costellazione di mini satelliti, in continuo ampliamento, per l’accesso a Internet satellitare globale in banda larga a bassa latenza, per tentare di garantire la connessione Internet nel Paese e per consentire al popolo un accesso sicuro alla Rete.
Starlink utilizza satelliti a bassa orbita terrestre (LEO) per fornire Internet veloce nel mondo, attraverso un sistema satellitare che trasmette segnali radio a ricevitori installati a terra. Le stazioni terrestri trasmettono i segnali ai satelliti in orbita che, a loro volta, inviano i dati agli utenti Starlink. L’obiettivo principale è quello di creare una rete a bassa latenza per ricevere dati anche un solo millisecondo prima e che faciliti l’edge computing, metodo più rapido ed efficiente per elaborare i dati, riducendo notevolmente la necessità di elaborarli in un data center remoto e consentendo così una maggiore sicurezza.
Secondo un sondaggio del 2023 condotto da Miaan Group, solo il 20% degli Iraniani intervistati ha dichiarato di essere consapevole di come utilizzare strumenti per la privacy online per nascondere il proprio segnale. Miaan Group ha progettato una serie di corsi online gratuiti per insegnare ai cittadini come utilizzare in modo sicuro strumenti come VPN, Tor e i sistemi di crittografia.
Le chiusure di Internet in Iran violano molteplici diritti umani, tra cui quelli sanciti dagli articoli 19 e 21 della Dichiarazione Universale dei diritti umani, che garantiscono rispettivamente la libertà di espressione e la libertà di riunione e associazione. L’Iran dovrebbe adottare diverse misure per garantire il rispetto dei diritti umani online, come la revisione delle leggi che regolano l’accesso a Internet, la cessazione delle pratiche di censura arbitrarie, il rafforzamento della trasparenza e del controllo democratico sulle attività di sorveglianza online e il perseguimento di coloro che sono responsabili di violazioni dei diritti umani online.
La risoluzione 44/12 del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite sulla libertà di opinione e di espressione (2020) ha condannato fermamente la chiusura di Internet e invita gli Stati ad astenersi da tali pratiche. Più specificamente, la Risoluzione 44/20 sulle proteste ha invitato gli Stati ad astenersi dall’ordinare la chiusura totale di Internet e dal bloccare siti Web e piattaforme durante le proteste o i momenti politici chiave. Il Segretario generale delle Nazioni Unite, Gutierres a giugno del 2023, ha dichiarato: “La chiusura generalizzata di Internet e il blocco e il filtraggio generici dei servizi sono considerati dai meccanismi dei diritti umani delle Nazioni Unite come una violazione del diritto internazionale sui diritti umani”.
La comunità internazionale ha la responsabilità di fare pressione sull’Iran affinché rispetti i suoi obblighi in materia di diritti umani. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea e gli Stati Uniti dovrebbero utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per condannare le violazioni dei diritti umani online in Iran ed incoraggiare il governo iraniano a rivedere le sue politiche e porre fine alle chiusure di Internet.
“Le persone in Iran stanno protestando perché non vedono la morte di Mahsa (Jina) Amini e la repressione delle autorità come un evento isolato, ma piuttosto l’ultimo esempio della repressione sistematica del governo nei confronti del suo stesso popolo”, ha dichiarato Tara Sepehri Far, ricercatrice di Human Rights Watch nella Divisione Medio Oriente e Nord Africa, dove indaga sulle violazioni dei diritti umani in Iran e Kuwait.
La comunicazione ha giocato e gioca tuttora un ruolo cruciale nella diffusione delle mobilitazioni. Nonostante la censura e le repressioni, numerosi video circolano online e mostrano i moti di rivolta, le violenze della polizia, e le scene di donne che si tolgono dal capo l’hijab e lo bruciano, o si tagliano ciocche di capelli. L’hashtag #MahsaAmini continua a essere tra i più visualizzati. Internet è il canale che ha permesso una diffusione ampia e rapida del movimento di protesta in tutto il paese. Grazie alla Rete le notizie di quanto stava accadendo inizialmente solo in Kurdistan e a Teheran sono circolate ovunque, ed è con il passa parola su Internet che le persone sono venute a conoscenza dei raduni organizzandosi per scendere in piazza.
È importante ribadire che l’accesso negato ad Internet viola il diritto alla libertà di espressione e all’accesso alle informazioni, oltre che il diritto alla libertà di riunione pacifica e associazione, sanciti dal Trattato ONU sui diritti politici e civili del 1966, di cui l’Iran è paese firmatario. In base alla normazione internazionale, la Repubblica Islamica ha l’obbligo di garantire che ogni restrizione dell’accesso alla Rete sia motivata per legge da ragioni di sicurezza, e che in nessun caso sia totale o si protragga per lunghi periodi.
La richiesta di libertà di espressione e di democrazia degli Iraniani di oggi, non è figlia soltanto della Repubblica Islamica, nata dalla rivoluzione del 1979, ma affonda le proprie radici nel movimento politico che nel 1906 portò alla Rivoluzione costituzionale. L’Iran fu allora il primo paese musulmano a dotarsi di una Carta, entrata in vigore nel 1979 e definita un incrocio tra una teocrazia e una democrazia, composta di 177 articoli raccolti in 14 capitoli, il 12° interamente dedicato a Radio e Televisione.
Quel processo democratico non si è mai del tutto interrotto e rivive oggi in forme diverse, con strumenti, linguaggi e urgenze in continua evoluzione.
Si potrebbe dire che raccontare l’Iran voglia dire, dunque, anche raccontare come i media abbiano raccontato e continuino a raccontare il Paese. La cosiddetta “era della comunicazione” comincia – a livello mondiale – proprio quando in Iran nasce la Repubblica Islamica. I leader dei primi anni Ottanta – da Jimmy Carter negli Usa a Margareth Thatcher in Gran Bretagna, da Francois Mitterand in Francia allo stesso Ruhollah Khomeini in Iran – riconoscono ai mass media (e alla televisione in particolare) una centralità nuova, non più meramente strumentale. I media occupano ormai una parte importante nella vita delle persone e quindi dei popoli, non si limitano a “informarli”, ma li “formano” attraverso dinamiche e linguaggi in continua evoluzione. Quando nel 1983 la Repubblica Islamica decide di liquidare definitivamente il Partito comunista Tudeh, non si limita a processarne i leader, ma lo fa in diretta televisiva. I processi proposti in prima serata al pubblico iraniano servono ad elaborare, prima ancora che diffondere, una narrazione ufficiale della rivoluzione, estorta in questo caso attraverso la tortura e la coercizione e condivisa con le masse attraverso la tecnologia.
Da allora mezzi e linguaggi della comunicazione si sono trasformati radicalmente. Il sistema creato nel 1979 si è dovuto misurare, a più riprese, con scenari completamente inediti: con le televisioni satellitari all’inizio degli anni Novanta, con l’avvento di Internet qualche anno più tardi, fino al boom dei social media e della telefonia mobile. Dalle audiocassette con i sermoni di Khomeini che sfuggivano ai controlli della polizia dello Shah, siamo passati ai tweet della Guida Khamenei. Un bel salto, indubbiamente.
La creazione di IRANET (Information and Communication Network of Iran) nel 1993 ha segnato il primo passo importante verso l’introduzione di Internet al pubblico iraniano. Offrendo accesso completo a Internet, servizi di posta elettronica, pubblicazione elettronica e progettazione di siti web, IRANET ha contribuito alla messa online di molte imprese, organizzazioni, enti, informazioni, attività.
L’Iran ha avuto uno dei casi di crescita nell’uso di Internet più rapidi al mondo, diventando il secondo Paese in Asia – preceduto solo da Israele – per numero di utenti della Rete nel giro di pochissimi anni. Anche l’uso dei social media è ormai diffuso tra 48 milioni di utenti che hanno almeno un account social: questo significa che più della metà di tutti gli Iraniani usa Facebook, Twitter, Instagram, WhatsApp, Telegram, ma anche Badoo, BeReal, Linkedin. Queste piattaforme digitali offrono un nuovo spazio per la discussione politica, consentendo ai politici di raggiungere un vasto pubblico e agli utenti di esprimere le proprie opinioni in modo immediato e accessibile, e sono diventate un’arena cruciale per il dibattito politico, arrivando a influenzare la formazione dell’opinione pubblica.
Contrariamente alle aspettative dell’epoca, la Repubblica Islamica aveva infatti originariamente accolto con favore ed entusiasmo Internet, consentendo ai settori commerciali e della formazione di accedervi senza interferenze, anzi promuovendone la diffusione in modo molto diverso rispetto agli altri Paesi del Vicino o dell’Estremo Oriente. Mentre in Cina, per esempio, l’innovazione tecnologica e l’utilizzo della Rete era nata, inizialmente, per mettere in comunicazione i vari settori del Governo, quindi come forma di comunicazione intragovernativa dalla quale il resto della società era escluso, la prima esperienza dell’Iran con Internet si è verificata, invece, all’interno del sistema universitario, includendo da subito le comunità studentesche e lo staff accademico del Paese.
Ancora fino a qualche decennio fa, le connessioni Internet nazionali dell’Iran erano infatti basate sul mondo accademico, con una rete universitaria nazionale, poi implementata successivamente nel tempo da ulteriori collegamenti esterni stabiliti dall’Agenzia nazionale delle Poste e delle Telecomunicazioni, che ha fornito servizi sia alle imprese sia alle organizzazioni governative. Il legame tra rete e università ha permesso fino alla metà degli anni Novanta uno sviluppo delle telecomunicazioni dinamico e relativamente indipendente dal controllo statale.
A partire, però, dall’inizio del secondo millennio, sono iniziate le prime tensioni tra l’agenzia statale preposta alla regolamentazione e al controllo della Rete, cioè la Data Communication Company of Iran (DCI) – e il settore privato emergente.
Dall’inizio del nuovo millennio, Internet si è mostrato subito in tutta la sua ambivalenza: da una parte era chiaro come la sua portata fosse rivoluzionaria e ricca di opportunità; dall’altra parte era altrettanto chiaro come questo presto sarebbe stato un grande problema per la Repubblica Islamica, essendo la Rete una realtà senza confini e senza regole vissuta come luogo di espressione libera da ogni condizionamento. Così come accadeva già per la letteratura, la musica e il cinema, si dovette istituire un organo di censura appositamente dedicato alla Rete. Oltre alla censura, nel tempo, e a seconda dei diversi eventi politici che si sono susseguiti, come l’Onda Verde , il governo ha stabilito di tagliare la connessione dell’intera nazione per periodi più o meno lunghi, quando il rischio di proteste si faceva più imminente.
Per esempio, già nel maggio 2014, l’organo preposto alla censura della Rete, ha approvato una mozione per vietare l’applicazione di messaggistica mobile WhatsApp; questa decisione fu però contrastata dall’allora Presidente della Repubblica, Hassan Rohuani (2013 – 2021) e da Mahmoud Vaezi, allora ministro delle Telecomunicazioni. Fu un caso politico. Non era chiaro a chi spettasse l’ultima parola, se all’agenzia della censura, o se al Presidente della Repubblica stesso. La proposta di vietare WhatsApp era stata approvata poco dopo l’acquisizione da parte di Mark Zuckerberg dell’app di messaggistica, sulla base della motivazione ricorrente che il dominio americano nel Paese passasse soprattutto attraverso il controllo della comunicazione; per Rohuani invece, vietare WhatsApp avrebbe significato fomentare dissenso e malcontento tra gli Iraniani e non avrebbe sortito gli effetti desiderati.
Questo incidente fu emblematico quale grande difficoltà attendesse il governo iraniano stretto, di fatto, tra due grandi necessità opposte tra loro: da un parte di tutelare il regolare svolgersi delle attività di un Paese ormai in gran parte digitalizzato, anche grazie a un ambiente culturale che era stato fin da subito entusiasta e curioso rispetto alla rivoluzione digitale, con una pressante domanda di connettersi alla Rete che è stata fin dall’inizio trasversale alle varie età, classi sociali, ai generi e alla religione; dall’altra però, essere connessi significava anche modificare profondamente la propria cultura: andare incontro, come di fatto è avvenuto, a una nuova rivoluzione digitale avrebbe potuto portare l’Iran direttamente fuori dalla rivoluzione islamica.
Lo sforzo di controllare quasi 80 milioni di utenti è, però, davvero titanico, se non forse impossibile. Per questa ragione, il governo iraniano, negli anni, ha provato a trovare alternative efficaci per mantenere il precario equilibrio tra il voler essere un Paese fortemente digitalizzato e, allo stesso tempo, il voler essere una repubblica islamicamente irreprensibile.
Uno dei progetti più ambiziosi in questo senso è stata senz’altro, la creazione di un’ Intranet Nazionale come sostituto dell’Internet globale. Una sorta di nazionalizzazione della Rete, in modo da poter creare un mondo virtuale “purificato” da tutto ciò che era considerato “harim” (proibito) nell’Internet globale.
Una delle parole d’ordine delle piazze del 1979 era esteqlal, “indipendenza”. Indipendenza innanzitutto culturale, di valori e di linguaggio. La rivoluzione non nasce come “islamica”, ma contro lo Shah e contro la propaganda filostatunitense. La gharbzadeghi, la “intossicazione da Occidente”, o “Occidentosi”, descritta nel 1962 dall’intellettuale ex marxista Jalal Al-e Ahmad, è innanzitutto un malessere culturale: “Siamo stranieri a noi stessi: è straniero quello che mangiamo e come ci vestiamo, sono straniere le nostre case, stranieri i nostri modi, i nostri libri e, quel che è più pericoloso, è straniera la nostra cultura.” Quella descritta da Jalal Al-e Ahmad era la gharbzadeghi degli Iraniani; a distanza di cinquant’anni, sembra che anche molti osservatori occidentali soffrano di una sorta di autointossicazione che impedisce di accettare la diversità culturale e di valori alla base del modello politico proprio dell’Iran. Come giustamente ricordato in questa monografia, la Repubblica Islamica, nata dopo la rivoluzione del 1979, “si è definita più di ogni altra cosa in senso culturale”. Il che ha implicato un azzeramento iniziale del sistema precedente, con la chiusura delle Università per due anni e una massiccia e rapida islamizzazione dei mass media, del sistema di istruzione e dei canoni estetici e di comunicazione. Canoni che, in questi 45 anni, sono cambiati completamente, in tutto il mondo.
La maggior parte delle problematiche costituzionali del bilanciamento tra sicurezza e libertà, che, particolarmente nell’ultimo decennio, hanno animato, nel corso delle differenti emergenze del pianeta, quasi dovunque il dibattito politico e costituzionale, sono tuttavia difficilmente proponibili nel contesto iraniano. Essenzialmente perché negli ordinamenti costituzionali moderni le nozioni di libertà e di sicurezza assumono significati differenti da quelli che assumono in un ordinamento teocratico, nel quale devono essere ricondotte all’alternativa teologica tra bene e male, ed a comparire di fronte ad essa.
Ghazal Afshar, membro dell’Associazione “Giovani Iraniani”, ha rilasciato un’intervista all’inizio di settembre 2023, con lo scopo non solo di far capire esattamente la realtà di ciò che vive il popolo iraniano ogni giorno da anni, ma anche e soprattutto di fare in modo che queste informazioni vengano divulgate a quante più persone possibili. Eccone uno stralcio:
Alla domanda su quale sia la relazione tra Islam e diritti umani in Iran, Ghazal ha risposto che “… molto spesso si fa l’errore di pensare che questo regime che si definisce appunto una Repubblica islamica, rispecchi quelli che sono i canoni, i valori e gli ideali dell’Islam. Allora questo regime purtroppo non ha nulla a che vedere con il vero Islam, ma con un’interpretazione integralista e fanatica e spesso definiamo noi attivisti questo Islam del regime un fascismo religioso poiché questo regime strumentalizza l’Islam appunto e la Sharia e lo interpreta a modo proprio a come meglio gli fa comodo per poter giustificare quelle che sono le sistematiche repressioni e violazioni dei diritti dei diritti umani quindi purtroppo l’Islam vero non ha nulla a che vedere con l’Islam che viene professato da questo regime è un regime che ha tra l’altro ha sfruttando la Sharia ha istituzionalizzato la misoginia e quindi reprime in primis quelle che sono i diritti delle donne che non hanno alcun valore all’interno della società non possono ricoprire cariche importanti sono represse insomma su moltissimi fronti. Il loro valore è la metà di quello dell’uomo anche ad esempio da un punto di vista legale una testimonianza di una donna vale la metà di quello dell’uomo e per avere validità deve essere accompagnata appunto da due uomini. Quindi la donna non può sposarsi di propria sponte, cioè la piaga delle spose bambine perché in Iran l’età minima per poter dare in sposa una bambina di 13 anni ma con il permesso di un uomo di famiglia o di un giudice si può dare in sposa una bambina anche a nove anni. E questo porta poi a criminalità, prostituzione, bambine, vedove e molto spesso molte di queste bambine poi, crescendo e volendosi spesso difendo dovendosi spesso difendere dalle violenze anche appunto del proprio marito che spesso anche 50 60 70 anni in più vengono arrestate e giustiziate addirittura poiché appunto hanno cercato di difendersi uccidendo il proprio aguzzino. Tra l’altro l’Iran detiene anche il record di esecuzioni di donne soltanto l’altro ieri è stata giustiziata la 219 esima donna dal 2007 ad oggi quindi insomma un record mondiale nelle esecuzioni delle donne e tra l’altro anche un record mondiale nelle esecuzioni pro capite di dei propri cittadini nel senso in proporzione alla popolazione che è di circa poco più di 80 milioni in Iran vengono uccise molte più persone rispetto ad esempio anche alla Cina che ne uccide di più ma ha comunque 2 miliardi di abitanti, mentre l’Iran in proporzione al numero degli abitanti detiene il record appunto di esecuzioni esecuzioni che molto spesso tra l’altro vengono con l’accusa di essere Muarreb anche qui andando a sfruttare quella che è una un termine appunto un concetto appunto del Corano e cioè quella di colui che porta una guerra porta avanti una guerra nei confronti di Dio e Dio però nella Repubblica islamica in personificata nella figura delle varie fasi appunto del leader supremo Vali-e faqih Khamenei e quindi tutto poi tutto poi fa capo a questa a questa figura che tutto decide e tutto e tutto e che definisce appunto diciamo quelle che sono le sorti del Paese ma anche della popolazione.”
Bibliografia/Sitografia
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- https://biblioteca.hegoa.ehu.eus/system/ebooks/9980/original/Social_Movements__Activism_and_S ocial_Development.pdf Annabelle SREBERNY, “Women’s Digital Activism in a Changing Middle East”, International Journal of Middle Eeast Studies – vol. 47, issue 2 – 2015
- https://www.cambridge.org/core/journals/internationaljournal-of-middle-east-studies/article/womensdigital-activism-in-a-changing
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- Barbara CALDERINI, “Autoritarismo digitale, cresce la lista dei i “tecnoregimi” con velleità censorie: cosa rischiamo tutti”, Agenda digitale.eu – 2021
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