di Pietro Errede
[vc_row] [vc_column width=”5/6″]Corte Costituzionale, sentenza n. 1 del 15 gennaio 2013, Udienza Pubblica del 4 dicembre 2012
La Corte Costituzionale ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08, e che non spettava alla stessa Procura di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271,comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.
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Il delicato tema delle intercettazioni telefoniche è diventato oggetto di approfondimento anche per la Corte Costituzionale, interpellata di recente dall’Avvocatura dello Stato in difesa del Presidente della Repubblica. La questione sottoposta riguarda il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato «per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione»: in particolare, l’art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall’articolo 90 della Costituzione), «anche con riferimento all’art. 271 del codice di procedura penale» (ossia divieti di utilizzazione di intercettazioni telefoniche). Tale violazione è stata contestata al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo, in relazione all’attività di intercettazione telefonica svolta riguardo alle utenze di un indagato, nel corso della quale sono state captate conversazioni intrattenute da tale indagato con il Presidente della Repubblica.
La Consulta, ancor prima di analizzare gli aspetti normativi e pronunciarsi in merito, riepiloga i termini della questione sintetizzando l’evoluzione della vicenda sulla base delle deduzioni e produzioni delle parti. Le intercettazioni oggetto di controversia sono state effettuate su utenze telefoniche in uso ad un ex senatore ed ex ministro, sottoposto ad indagini, unitamente a diverse altre persone, nell’ambito del procedimento penale relativo alla cosiddetta “trattativa” tra Stato e mafia negli anni tra il 1992 e il 1994, per cui è stato ipotizzato il reato di violenza o minaccia aggravata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012 sono state intercettate, in forza di due distinti decreti di autorizzazione (nonché di successive proroghe), 9.295 telefonate. Fra queste, quattro hanno avuto come interlocutore il Presidente della Repubblica. Alla luce delle prime indagini, nel giugno 2012, la Procura di Palermo decideva di esercitare l’azione penale solo nei confronti di alcuni degli indagati, fra cui l’ex senatore, e di proseguire ad investigare sugli altri residui. Nel fascicolo del nuovo procedimento separato, veniva formulata richiesta di rinvio a giudizio degli imputati e la Procura inseriva le sole intercettazioni ritenute utili per l’instaurando giudizio, non comprendendovi i colloqui cui aveva preso parte il Capo dello Stato. Pertanto la documentazione concernente tali colloqui, rimasta nel fascicolo del procedimento originario non formava oggetto di deposito e quindi non era ancora conoscibile alle parti processuali.
La Presidenza della Repubblica ha appreso dell’esistenza di dette registrazioni a seguito della pubblicazione di un’intervista rilasciata ad un quotidiano dal sostituto Procuratore di Palermo, il quale aveva detto che «negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni del Capo dello Stato e questo significa che non sono minimamente rilevanti» e che la Procura palermitana avrebbe applicato «la legge in vigore» per decidere se distruggerle o valutarne l’utilizzabilità per altri procedimenti. A seguito di richiesta di chiarimenti dall’Avvocatura Generale dello Stato in merito a tale rivelazione, tramite nota diffusa da agenzie di stampa il 9 luglio 2012, la Procura di Palermo rispondeva che «nell’ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l’immediata cessazione dell’ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione» e che, «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti».
Di conseguenza il 16 luglio 2012 l’Avvocatura dello Stato ha sollevato di fronte alla Consulta il conflitto d’attribuzione tra poteri nei confronti della Procura di Palermo in quanto questa ha omesso di richiedere l’immediata distruzione di tali intercettazioni registrate ex art. 271 cpp in quanto “eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge” e ritiene invece di applicare l’art. 269 cpp, cioè con udienza di fronte al Gip per la valutazione della rilevanza delle conversazioni, alla presenza delle parti le quali, se interessate, possono acquisire atti a loro utili.
Lo scorso 19 settembre la Consulta ha giudicato l’ammissibilità del conflitto con l’ordinanza n. 218 del 2012. A novembre Avvocatura e Procura hanno depositato le rispettive memorie. Dopo aver dedotto eccezioni preliminari di inammissibilità, nel merito, la Procura ha molto insistito sulla “casualità” dell’intercettazione nei confronti del Presidente della Repubblica e sui pericoli di un eccesso di immunità in occasioni analoghe. Sostiene infatti che l’ipotetico accoglimento del ricorso «renderebbe illecito “ex se” anche l’ascolto occasionale di una conversazione presidenziale nel contesto di un’intercettazione debitamente autorizzata; impedirebbe al magistrato penale di prendere cognizione del contenuto della comunicazione, anche al solo fine di apprezzare la responsabilità di un altro soggetto, non protetto da alcuna immunità; imporrebbe, infine, l’immediata distruzione delle intercettazioni, in violazione del diritto di difesa del terzo che avesse un interesse contrario alla distruzione. In una simile situazione, i magistrati sarebbero inevitabilmente indotti ad astenersi dal disporre intercettazioni a carico di tutti coloro che, ancorché sottoposti ad indagine penale, potrebbero avere titolo per comunicare direttamente con il Presidente della Repubblica, in ragione di attuali o pregressi rapporti: ciò, peraltro, in aperto contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.)».
La Consulta, rigettate le eccezioni preliminari sollevate dalla resistente, nel merito ha ritenuto fondato il ricorso in ragione dell’insieme dei principi costituzionali «da cui emergono la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano».
Prima di enucleare tali principi spiega la premessa metodologica da cui non si può prescindere per l’interpretazione autentica delle norme: «in tutte le sedi giurisdizionali […] occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa […] La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela».
Dunque dal complessivo sistema costituzionale italiano il Presidente della Repubblica è collocato al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e al di sopra di tutte le parti politiche. Il Presidente della Repubblica è organo di moderazione e di stimolo nei confronti degli altri poteri costituzionali. Fra le attribuzioni specifiche, ricordiamo il potere di sciogliere le Camere, quello della nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, nonché la qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. «Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche». Nelle sue attività informali di contatto, ascolto, stimolo ed eventuale persuasione deve essere molto discreto e soprattutto «deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte».
La Consulta evidenzia che tutti gli organi costituzionali hanno necessità di una garanzia di riservatezza in relazione alle rispettive comunicazioni inerenti ad attività informali. Ad esempio, l’art. 68, terzo comma, Cost., stabilisce che non si possa ricorrere ad intercettazioni telefoniche nei confronti dei membri delle due Camere se non a seguito di autorizzazione concessa dalla Camera competente. Analoghe garanzie sono previste da norme di rango costituzionale anche per i componenti del Governo (art. 10 della legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1).
Effettivamente in tale quadro manca qualsiasi riferimento a soggetti istituzionali che possano autorizzare eventuali intercettazioni nei confronti del Presidente della Repubblica. L’assenza di tale previsione non potrebbe essere superata in via interpretativa né può portare alle estreme conseguenze che le comunicazioni del Presidente della Repubblica non abbiano proprio tutela o ne abbiano una inferiore a quella degli altri soggetti istituzionali. Più coerente è concludere che il silenzio della Costituzione sul punto sia da intendersi quale inderogabilità della riservatezza della sfera delle comunicazioni presidenziali. «Non si tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della presupposizione logica, di natura giuridico-costituzionale, dell’intangibilità della sfera di comunicazioni del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato».
Volendo ragionare in termini positivi, sulla base di norme esistenti, l’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. Ebbene il legislatore ordinario, mediante l’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989, attribuisce al Comitato parlamentare, di cui all’art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, il potere di deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, ma soltanto dopo che la Corte costituzionale abbia sospeso lo stesso dalla carica. Ciò conferma che, persino nell’ipotesi di indagini volte all’accertamento dei più gravi delitti contro le istituzioni della Repubblica, agli investigatori è interdetto effettuare intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente in carica.
In effetti la Procura resistente non ha mai contestato tale inderogabilità, ma ha esposto un dubbio sul caso di intercettazioni “casuali”. Il fatto che l’intercettazione sia casuale non pone il problema di poter configurare un divieto preventivo, che sarebbe ben difficile proprio per l’imprevedibilità della captazione. La funzione di tutela del divieto si deve trasferire dalla fase anteriore all’intercettazione a quella posteriore, giacché si impone alle autorità che hanno disposto ed effettuato le captazioni l’obbligo di non violare la riservatezza delle comunicazioni presidenziali, adottando tutte le misure necessarie per impedire la diffusione del contenuto delle intercettazioni. Altrimenti si verificherebbe la inaccettabile situazione di una tutela costituzionale sbiadita in seguito a circostanze casuali ed imprevedibili. Pertanto è stato ritenuto coerente e legittimo che in tale fattispecie l’autorità giudiziaria distrugga, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica applicando l’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. ©
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