La dibattuta natura del profitto nel delitto di furto. La tutela della persona attraverso la tutela del patrimonio

di Gianluca Mangone

L’articolo ricostruisce il dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo alla natura del profitto nel delitto di furto, su cui è intervenuta recentemente la sentenza delle Sezioni Unite n. 41570 del 2023. Il contributo, prendendo le mosse dal binomio natura del profitto/valore della cosa oggetto di sottrazione, giunge alla medesima conclusione adottata dalle Sezioni Unite, ma attraverso l’espresso richiamo alla concezione personalistica del patrimonio.


Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno cercato di delineare, in chiave nomofilattica, la dibattuta natura del profitto nel delitto di furto. [Cassazione Penale, Sezioni Unite, 12 ottobre 2023 (ud. 25 maggio 2023), n. 41570, Presidente Diotallevi, Relatore De Marzo].

“Nel delitto di furto, il fine di profitto che integra il dolo specifico del reato va inteso come qualunque vantaggio anche di natura non patrimoniale perseguito dall’autore”.

L’imputato veniva condannato con sentenza, confermata in Appello, per il delitto di furto con strappo ex art. 624 bis, comma 2, c.p. perché, a seguito di un litigio con la fidanzata, avvenuto in un giardino pubblico, questa chiamava i Carabinieri per richiederne l’intervento. L’imputato, per risentimento, dispetto e ritorsione, a fronte della telefonata effettuata alle Forze dell’Ordine, le strappava il telefono di mano e si allontanava. In seguito, veniva trovato nelle vicinanze dagli operanti, intervenuti sul luogo.

A parere della difesa, la condotta dell’imputato non integrerebbe la fattispecie di furto (con strappo), in quanto, nel caso di specie, emergeva evidente l’assenza del dolo di profitto, avendo egli agito per ritorsione, a fronte dell’avvenuta telefonata. Infatti, il dolo di profitto dovrebbe essere interpretato restrittivamente, in senso economico-patrimoniale.

Sul punto si rinvengono due opposti orientamenti, in dottrina e giurisprudenza.

Secondo un primo orientamento, maggioritario sia in dottrina che in giurisprudenza, il concetto di profitto nel furto andrebbe interpretato in modo estensivo, facendovi rientrare, non solo il vantaggio economico-patrimoniale, ma ogni altro vantaggio preso di mira dall’agente, anche di tipo morale o affettivo (in dottrina, Mantovani, Manzini).

Viceversa, secondo altro orientamento, minoritario, tale concetto andrebbe interpretato in modo restrittivo, ricomprendendovi soltanto il vantaggio di tipo economico-patrimoniale (Fiandaca – Musco, Leone).

La dottrina italiana è da tempo orientata nel senso della più estesa concezione del profitto. Si è, infatti, affermato che per profitto si intende non il solo lucro ma, altresì, in genere qualunque utilità patrimoniale o non patrimoniale che il colpevole si riprometta per sé o per altri dall’impossessamento della cosa sottratta. È, quindi, profitto considerabile per la nozione del furto non solo la utilità economica o altro vantaggio materiale, ma altresì ogni godimento, soddisfazione, piacere che ci si riprometta dall’impossessamento della cosa. Così, se il fatto è commesso per vendetta, cioè per procurarsi il piacere di recar danno con profitto proprio ad altri, si ha uno scopo di profitto sufficiente a caratterizzare il fatto stesso come furto, quando la volontà di rubare si manifesti con la conservazione della cosa nel possesso dell’agente (se invece la cosa viene immediatamente distrutta o dispersa, si ha danneggiamento). Lo stesso deve dirsi del furto commesso per soddisfare qualsiasi vizio, o al fine di fare beneficenza.

Tale opinione sarebbe anche confermata da una interpretazione storica che vada a scandagliare la voluntas legis dei compilatori del codice del 1889, prima, e del 1930, poi. Dalle Relazioni ministeriali emerge, infatti, che la nozione di profitto sia stata preferita, proprio per il suo significato più ampio sotto il profilo semantico-giuridico, rispetto a quella già utilizzata in altre esperienze legislative del passato di “animo di lucro”, dal campo semantico decisamente più circoscritto ed avente significazione esclusivamente economica.

Anche la giurisprudenza maggioritaria appare orientata nel fornire una interpretazione ampia del concetto di profitto.

Accanto all’ orientamento maggioritario, però, se ne è sviluppato uno minoritario. Questo ritiene che, seguendo il primo orientamento, si rischierebbe di deformare l’essenza del delitto di furto, che è il tipico reato contro il patrimonio. Viene affermato che gli esempi realizzati dall’orientamento maggioritario, al fine di corroborare l’ampia natura del profitto, non siano corretti perché, proprio in quegli esempi, sussisterebbe, comunque, il fine di profitto economico in capo all’agente. Chi ruba, infatti, per vendetta, mirerebbe a trarre profitto economico dalla cosa altrui (altrimenti, se non perseguisse questo fine, distruggerebbe la cosa e commetterebbe in tal caso danneggiamento e non furto). Chi ruba con intento goloso, sottrae la cosa sì per mangiare, ma senza pagarla (a scopo, cioè, di conseguire un’utilità economica, in termini di risparmio di spesa). Ciò varrebbe anche per chi ruba per fare beneficenza. E così via.

Di conseguenza, il profitto andrebbe inteso in senso economico-patrimoniale e rappresentato dallo scopo di “evitare l’esborso patrimoniale normalmente necessario per acquisire i beni nel libero mercato”.

Il sopraesposto dibattitto viene, parallelamente, a coinvolgere una seconda questione, strettamente collegata alla natura del profitto, ovvero se la cosa sottratta debba avere necessariamente un valore economico-patrimoniale oppure possa, semplicemente, possedere un valore extra-economico (ad esempio, valore affettivo).

Un primo orientamento dottrinale (Mantovani, Manzini), ritiene che si possa integrare la fattispecie di furto nel caso in cui la cosa sottratta abbia, semplicemente, un valore affettivo o sentimentale per la persona offesa.

Un secondo orientamento (Fiandaca – Musco), viceversa, ritiene che le cose oggetto di sottrazione dovrebbero sempre avere un valore economico-patrimoniale, richiamando un argomento testuale. Infatti, l’art. 624, comma 2, c.p. nel precisare la nozione di cosa mobile, vi fa rientrare l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un “valore economico”. Da ciò deriverebbe che la cosa mobile debba, necessariamente, possedere un valore economico, altrimenti non si spiegherebbe, rispetto alle energie, il riferimento al valore economico, da parte del legislatore.

La giurisprudenza ammette che la cosa mobile possa, semplicemente, avere un valore sentimentale o affettivo per la persona offesa.

Le Sezioni Unite utilizzano una argomentazione (in modo incidentale) che forse avrebbe meritato un ulteriore approfondimento perché, per il modo in cui è posta, porta ad una inversione logica che non risulta utile a delineare la portata del profitto.

Viene affermato che siccome la giurisprudenza, tradizionalmente, ammette che possano essere oggetto di furto anche le cose prive di valore economico, allora, specularmente, il profitto preso di mira dall’agente può essere inteso in senso ampio, non strettamente economico-patrimoniale.

Ora, tale argomento è condivisibile, ma si fonda su un’inversione logica.

Il thema decidendum (ossia la natura del profitto) non viene determinato in modo autonomo, ma partendo da quanto affermato da precedenti pronunce giurisprudenziali (peraltro risalenti). Viceversa, le Sezioni Unite avrebbero, prima, dovuto chiarire la portata del profitto e, soltanto in seguito, affermare, come conseguenza, che le cose oggetto di furto possono essere prive di valore economico. Diverso sarebbe stato se le Sezioni Unite avessero, in autonomia, stabilito, come principio generale, che le cose oggetto di furto possano non avere valore economico-patrimoniale, accogliendo la concezione personalistica del patrimonio e, da tale presupposto, avessero fatto derivare come conseguenza che il profitto nel furto può avere un significato ampio.

Occorrerebbe affrontare la questione attuando una interpretazione costituzionalmente orientata del bene giuridico patrimonio e, quindi, accogliere la concezione personalistica del patrimonio (accanto alla quale esistono anche quella economica, giuridica ed economico-giuridica).

Infatti, sia l’estrinsecazione della personalità umana, sia il patrimonio, sono beni di rilievo costituzionale, ma collocati in una precisa gerarchia di valori. Dal dettato costituzionale emerge come il patrimonio sia funzionale alla conservazione, dignità e sviluppo della persona umana. Di conseguenza, esso dovrebbe abbracciare tutte le cose atte a soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali, siano esse dotate o prive di valore economico, per cui l’economicità è una sua nota senz’altro primaria, ma non esclusiva.

Si pensi, a titolo esemplificativo, ad una persona che nel proprio patrimonio possiede l’unica fotografia del figlio venuto a mancare. Tale bene, da un punto di vista economico-patrimoniale non ha alcun valore di mercato, ma è fondamentale nella vita di quella persona perché dalla visione quotidiana di quella immagine ottiene un senso di pace/tranquillità, necessario per permetterle di proseguire la sua vita. È evidente che qualora un soggetto volesse sottrarre quella fotografia non lo farebbe al fine di trarre un profitto economico-patrimoniale, proprio perché quel bene non ha alcun valore di mercato. Dunque, interpretando in modo restrittivo il concetto di profitto, la condotta di sottrazione della fotografia non sarebbe penalmente rilevante. Ciò determinerebbe un vuoto di tutela penale non solo a danno del patrimonio, ma soprattutto a danno della persona vittima della condotta di sottrazione. Per tale ragione, sarebbe preferibile accogliere la concezione personalistica del patrimonio, ammettendo che i beni possano avere, soltanto, un valore affettivo e, di conseguenza, interpretare il profitto in modo estensivo, ricomprendendo qualunque utilità, anche non economico-patrimoniale perseguita dall’agente.

Infatti, soltanto ritenendo che i beni oggetto di sottrazione possano avere un valore extra-economico, si potrà, parallelamente, ammettere che il profitto abbia natura non strettamente economico-patrimoniale. Ma ciò è percorribile, soltanto, accogliendo detta concezione del patrimonio.

La conclusione cui sono pervenute le Sezioni Unite è condivisibile, ma avrebbero potuto giungervi aderendo, espressamente, alla concezione personalistica del patrimonio. Non si può escludere che ciò verrà fatto dalla successiva giurisprudenza.


 
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